domenica 30 aprile 2017
OJM Varese-Vanoli Cremona: 78-75
ph carlozanzi
Varese
non ha niente da perdere, Cremona non può perdere, però Varese ha una pesante
sconfitta contro i cremonesi da vendicare (fu la caduta nel baratro) e vuole
salutare il suo pubblico con una bella vittoria. Cavaliero se ne è andato a
Trieste, ora capitano è Ferrero, inoltre Massimo Bulleri detto Bullo (foto)
disputa la sua penultima partita di basket, dopo una più che onorata carriera e
un palmares prestigioso. E infatti il molto pubblico del PalA2A saluta il Bullo
con parecchie ovazioni. Palla a due, e subito si intuisce che il duello
Eyenga-Johnson/Odom sarà tosto: il nostro si innervosisce e prende un bel
tecnico, tanto per cominciare. Varese pare prenderla un po’ alla leggera,
comunque siamo avanti al primo: 28-20. Avramovic nel secondo quarto piazza una
tripla e due liberi, si presenta bene, Varese regge e i cremonesi non paiono
imbattibili, siamo 43 a 27, poi un bel 8 a 0 per i padani e finisce 45-35. La
Ojm inizia bene il terzo, addirittura + 17 (62-45) dopo un’azione superba, in
velocità, con passaggio dietro la schiena di Avra e conclusione vincente. Poi,
in due minuti, complice un calo di tensione, un po’ di sfortuna e qualche
decisione arbitrale, più la bravura dei cremonesi, regaliamo un bel 10 a 0,
così finisce 62-55, cioè tutto da rifare. Eyenga c’è a sprazzi, condizionato
dai falli e dalla marcatura, in difesa, su Johnson-Odom, Maynor (foto) fa ottime cose
ma anche imperizie (passi, e poi
infrazione di 8 secondi), il nostro Johnson fa ottime cose in momenti cruciali
ma loro sono lì: 66-59, e poi 70-64 a -4’40”, e poi un incoraggiante 76-64
quando manca poco, ma ecco un nuovo 10 a 0 per Cremona, che riporta quelli
della bassa a due soli punti da noi, 76-74. Mancano ottanta secondi e si teme
il peggio. Anche perché Maynor, proprio ora, fa fallo di 8 secondi. Mamma mia!
Fallo di Avramovic, che regala tre liberi a Odom il terribile…che però ne
sbaglia due: 76-75. Palla a noi, canestro e poi loro sbagliano la tripla della disperazione.
Si vince 78-75. Ma che fatica! Cremona è all’inferno, noi fra il purgatorio e
il paradiso. Resta la trasferta di Torino e poi…buona vacanza a tutti.
Forza
Varese!
26 maggio 1859
ph carlozanzi
26 maggio 1859: è il giorno della battaglia di Varese, fra i Cacciatori delle Alpi, guidati da Giuseppe Garibaldi, e il regio esercito austriaco del Lombardo-Veneto, capitanato dal felt-maresciallo Karl Urban, scontro avvenuto a Biumo Inferiore, venienti gli austriaci da Como. Ebbene, questo pomeriggio all'Ippodromo, con meticolosa ricostruzione storica, gli organizzatori della Varese Risorgimentale ci hanno regalato il ritorno al passato. Un lavoro di preparazione davvero encomiabile, premiato da una buona presenza di varesini alle Bettole. Servirà a qualcosa tutto ciò? Historia magistra vitae dicevano i saggi antichi: quanto meno i varesini hanno trascorso un pomeriggio diverso...il resto si vedrà.
Cartaceo
ph carlozanzi
Amo la carta, i libri di carta, il profumo della carta, però non capisco perché la maggior parte delle case editrici chieda agli autori, che si propongono per una pubblicazione, il dattiloscritto in formato cartaceo. Perché questo spreco di carta, danaro, tempo? Tanto si sa, basta una pagina per far capire ad un lettore attento se un autore vale o no. Bastano dieci righe. E' così comodo mandare il testo in word, un file e via...in un attimo. Secondo me lo fanno per disincentivare l'invio di materiale, visto che gli italiani, popolo di scrittori, mandano romanzi a palate. Se uno deve fare centinaia di fotocopie, più le spese postali, ci pensa.
Amo la carta, i libri di carta, il profumo della carta, però non capisco perché la maggior parte delle case editrici chieda agli autori, che si propongono per una pubblicazione, il dattiloscritto in formato cartaceo. Perché questo spreco di carta, danaro, tempo? Tanto si sa, basta una pagina per far capire ad un lettore attento se un autore vale o no. Bastano dieci righe. E' così comodo mandare il testo in word, un file e via...in un attimo. Secondo me lo fanno per disincentivare l'invio di materiale, visto che gli italiani, popolo di scrittori, mandano romanzi a palate. Se uno deve fare centinaia di fotocopie, più le spese postali, ci pensa.
Anna, sposa
Evviva! Un grande abbraccio ai miei amici Emanuela e Attilio, in festa per le nozze della figlia Anna. Felicitazioni agli sposi.
sabato 29 aprile 2017
Predilezione precoce
Di questo mio tema di 5^ elementare (che lascio così come l'ho scritto, con gli errori, senza le correzioni del maestro Visconti) si nota il mio unire già allora realtà e fantasia (ad esempio, non ero andato a otto anni all'Alpe di Siusi, ma ci andrò per la prima volta nel 1968), e mi ha colpito il finale, una precoce predilezione per i monti e per il Dio della natura.
30
maggio 1967
Tema
Se
ti fosse data la possibilità di fare un viaggio, quale meta sceglieresti e
perché?
Svolgimento
Se
mi fosse data la possibilità di fare un viaggio, sceglierei una zona montana.
Solo lì c’è quell’aria salubre che fa molto bene ai polmoni. Quei pini e quegli
abeti giganteschi, che offrono all’uomo ombra e ossigeno. Quelle vette mastrodontiche,
meta di alpinisti e scalatori. Quelle stupende vallate, dove si può correre all’impazzata
per ore e ore.
Però,
anche in montagna vi sono paesaggi diversi a seconda delle zone, e anch’io,
come molti altri ragazzi, ho una preferenza per una zona: l’Alpe di Siusi. In
questa stupefacente zona trentina, ero già stato a otto anni. Qui si recarono,
inoltre, i miei genitori in viaggio di nozze. E’ un paesaggio dolomitico, e
racchiude, in una stupefaciente zona, tutte le meraviglie della natura. Le montagne,
però, sono la cosa più spettacolare e attirano, con la loro maestosa superbia,
visitatori austriaci, francesi, svizzeri, tedeschi e di tutto il mondo. S’ergono
maestose vette, che sembrano bucare il cielo. Alcune montagne, poi, dal cucuzzolo
innevato, rimbombano per i numerosi echi: il fragore di una cascata o lo
scalpitio di un masso che rotola. Quando il sole tramonta, ecco che agli occhi
ancora increduli dei visitatori appaiono riflessi sui monti e colori più strani
e svariati.
Un’altra
fonte di turismo sono le pinete, lunghe a volte chilometri. I pini, distanziati
gli uni dagli altri regolarmente, sono fonte d’ombra e d’ossigeno. Dai monti
scendono ruscelli e torrenti che, con il loro gorgoglio, rallegrano il
paesaggio. Qua e là s’incontrano cascate, ripide e ricche d’acqua fresca. Ai
loro piedi, molte volte, si formano laghetti molto profondi. Le vallate si
susseguono come le coltivazioni di tulipani in Olanda. L’erba fresca e
verdissima sembra un morbido tappeto. Le capre e le pecore, gli armenti e i
cavalli s’incontrano ad ogni passo e, con i loro versi gutturali e stonati,
accompagnano al sonno come una ninna nanna. I perché di questa mia scelta sono
molti; sia perché in questa zona, come in molte altre zone montane, si respira
aria salubre, ma soprattutto perché qui, in questa pace e al cospetto della
natura, posso pensare più profondamente al suo creatore.
bene
W Garibaldi
ph carlozanzi
Varese
oggi ha spostato indietro il calendario di un secolo e mezzo, tornando alla
metà dell’Ottocento, al Risorgimento e all’epica battaglia di Varese, addì 26
maggio 1859. Grazie al Panathlon Club Varese (che oltre allo sport si interessa
di rievocazioni storiche), al nostro Comune, a Luigi Barion e ai
garibaldini-mazziniani varesini, e grazie a tutti coloro che non dimenticano il
passato, oggi (e domani all’Ippodromo) Varese torna risorgimentale: divise,
cavalli, armi, e tanti W l’Italia e W Garibaldi. Nel mio piccolo ho appeso al balcone il tricolore, in occasione del 25 aprile. Starà fuori qualche
giorno. Amo Varese, amo l’Italia e sono grato a quanti, più coraggiosi di me,
hanno contribuito al bene della nostra Patria.
venerdì 28 aprile 2017
I miei temi di quinta
18
aprile 1967
Tema
Mie
aspirazioni
Svolgimento
Sono
giovane, e per me non è ancora venuta l’ora di pensare ad un domani. Ho davanti
a me ancora tre anni di scuola media e, solo dopo questi anni, dovrò decidere
che strada prendere. Ma, nonostante la mia tenera età, sono molte le
aspirazioni che mi frullano nel cervello. Ogni giorno ne cambio una. O perché è
troppo costosa, o perché è troppo faticosa. Insomma, la mia è una vera e
propria “caccia alla professione”.
I
miei genitori non pensano al mio avvenire, perché sanno che sono giovane, e poi
devono pensare a mio fratello Guido, che ormai è in seconda media. Solo quando
c’è un po’ di calma, riflettono anche sulla mia professione, ma sono indecisi.
Vedono che riesco in matematica come in italiano, e va a finire che rispondono:
“Senti, scegli tu una professione che ti piace, noi non ti obblighiamo, fai pur
quello che vuoi.”
Però,
come tutti gli altri ragazzi, ho un mio sogno: diventare direttore di banca. E’
questa una professione che richiede molta matematica, e a me piace moltissimo
calcolare. Segno, su una rubrica, che custodisco gelosamente, i soldi che
ricevo, e anche quelli che spendo. E ho già fatto molti progressi! Anche se a
volte ricevo lodi dai miei cari, perché prendo bei voti in matematica, non mi
vanto, perché so che la strada da me scelta è dura. Anzi, mi propongo fin d’ora
di studiare bene la matematica.
Ho
scelto la professione del direttore di banca, perché dà molte soddisfazioni, e
sono anche sicuro che non mi pentirò di questa decisione. Ma è meglio che pensi
di finir bene le scuole obbligatorie e poi, a tempo opportuno, riflettere con
maggior buona volontà sulla strada da me scelta, perché devo essere sicuro che
la mia decisione mi renda felice per tutta la vita.
Sette
+
Vedere e non toccare
Fra i miei ricordi infantili, vi è questa frase ripetuta: 'Vedere e non toccare è una cosa da imparare'. Che tradotta, per i bimbi, significa (soprattutto in un negozio) ammirare i giochi ma non toccarli. Stamani mi sono svegliato con questa frase in testa. Sempre attuale. Anche se i giochi cambiano.
Se n'è già andata
ph carlozanzi
Come è giusto che sia, l'anomala neve d'aprile se n'è già andata. Resta qualche foto, la gioia del sole, del cielo azzurro e del calore che risale.
Come è giusto che sia, l'anomala neve d'aprile se n'è già andata. Resta qualche foto, la gioia del sole, del cielo azzurro e del calore che risale.
Neve d'aprile
ph carlozanzi
La
foto che vedete è stata scattata stamani, 28 aprile, alle 7. Temperatura di 4°,
neve pesante e abbondante, molto bagnata. Il precedente record di nevicate
avanzate, stando alle mie agende, risaliva a sabato 12 aprile 1986. Come stamani:
temporale, tuoni e neve con vento. Non è quindi una novità per Varese questa
neve d’aprile, certo, fa impressione vedere il Campo dei Fiori innevato. Aprile
pazzerello, ma il bel sole del fine settimana cancellerà questa esagerazione.
giovedì 27 aprile 2017
Da non perdere, stasera
ph carlozanzi
Stasera dalle 21 al Deja Vu: il grande Charlie e Lorenzo, il Bruce Springsteen varesino.
Stasera dalle 21 al Deja Vu: il grande Charlie e Lorenzo, il Bruce Springsteen varesino.
Per i giorni di pioggia
Un
indefinibile senso di pace
di carlozanzi
Un
indefinibile senso di pace lo condusse a varcare il cancello di un parco
pubblico: una pace calata con la sera, sul finire di una giornata umida di
pioggia sottile, confezionata in carta di cielo grigio e asfalto lucido. Un
tempo ovattato e fastidioso anche per lui sino a quella serenità senza ragione,
nata come dono dopo pensieri ansiosi e consegne impellenti.
Entrò
nel giardino pensando come avrebbe dovuto comportarsi per non perdere quello
spazio di contemplazione quando la gente, noiosa, non parlava che della pioggia
e non faceva che imprecare alle rogne della vita. Capì che avrebbe dovuto
sigillare le pareti dei suoi pensieri, fissare il suo esistere dentro uno
spazio minimo, sloggiando tutto e tutti; un egoismo amorevole, che gli regalava
una inattesa felicità.
Zoommò
il suo futuro dentro un’immagine ancor più ristretta, un minimo orizzonte dove
focalizzare il suo sguardo. Finì per adagiarsi su un sempreverde e, mettendo a
fuoco, trovò un rametto che luccicava di piccole gocce. S’avvicinò. Qualche
altro passo. Tolse gli occhiali da miope, si dispiacque d’aver lasciato a casa
quelli da presbite. Osservò con un’attenzione per lui sconosciuta, lui abituato
a sguardi veloci e giudicanti, rapidi e distratti, presto dimenticati. Non
aveva fretta perché aveva annullato ogni impegno, grazie ad una dimenticanza
benevola.
Sottili
rametti verdi s’allungavano da un ramo marrone, dalle estremità penzolavano
gocce di pioggia, acqua minuta, troppo leggera per sciogliersi a terra in
pozzanghera. Ogni goccia conteneva un riflesso, parlava d’altro, rimandava al
mondo fradicio e silenzioso che apparteneva a quel grande parco cittadino.
S’avvicinò ancora sino a sfiorare i rami col naso. E pensò alla sua vita. In
bilico come quelle gocce, vive per assenza di vento o di dita che sfiorassero i
rami, bisognose di un altro, di una dipendenza, di un amore a cui legarsi per
non morire, cedendo alla gravità, alla terra, assorbite dal nulla. Appesa la
sua vita come un acrobata, uno scalatore in roccia, no, ancora più instabile,
meno prevedibile nel futuro, meno salda. Un esistere nella bellezza come
meravigliose erano le gocce, un bello in balia di prepotenze, disattenzioni,
parole vuote, sbuffi di rabbia capaci di far tremare un ramo, di scollare una
passione che cerca abbracci.
Lo
temeva e accadde. La pace durò pochi istanti, si incrinò disturbata da voci
lontane, da un fastidioso prurito al collo e da pensieri malandrini che s’infiltrarono
nella prima crepa e tornarono ad inquinargli la mente. Cercò di scacciarli ma
non vi riuscì, altri si diedero appuntamento dentro di lui: la vita vera tornò
coi suoi fastidi.
mercoledì 26 aprile 2017
Terza età
Terza
età: quando inizia? Internet, bocca della verità, ammette che non vi è una data
precisa, in genere si dice intorno ai 65 anni, quando più o meno tutti vanno in
pensione.
Se
invece per terza età si intende l’affrontare la giornata con quiete, misurando
i passi e le parole come un maratoneta che deve centellinare lo sforzo; se si
intende quel vivere distaccatamente immersi nella realtà, vigili sul peggio che
arriva, oranti e laboranti, grati e insieme timorosi; se si intende un presente
che beve più volentieri alla fonte del passato più che brindare con ampia coppa
al futuro veniente, certo atteso e progettato, ma pronti alla rinuncia; se si
intende godere di ogni attimo di gioia, quasi fosse immeritata ricompensa alla
voglia di vivere...ebbene..se questa è la terza età io ho tagliato il
traguardo.
Il mio gioco preferito
Stamani ho avuto il piacere di andare a parlare ad alcuni alunni di quarta e quinta della scuola elementare 'Giovanni Bosco' di via Busca, dialogando sulla mia passione per la scrittura. Ho letto fra l'altro questo mio tema di quinta elementare, dove emerge già la mia capacità inventiva, perché se è vero che amavo giocare al pallone, in verità il mio ruolo era quella di portiere (la foto è proprio del 1967, come il tema, e il campetto è quello di Avigno) e non ero poi abilissimo coi piedi. Però mi tuffavo anche sui sassi.
16
aprile 1967
Tema
Il
mio gioco preferito
Svolgimento
Siamo
ormai a primavera inoltrata, e solo in questi giorni il caldo comincia a farsi
sentire. Studiare diventa difficile: il sole e l’aria tiepida sono tentazioni
per invogliare un bimbo al gioco. Finalmente i noiosi e monotoni giochi di casa
sono terminati. Le urla laceranti dei bimbi che scendono per giocare rimbombano
nei cortili. Anch’io posso finalmente praticare il mio gioco preferito, che per
tutto l’inverno ho sognato. Appena ho un momento libero, subito corro all’oratorio
perché è lì che potrò finalmente realizzare il mio sogno: giocare a pallone.
Già
da quando ero piccino praticavo questo gioco. Ricordo le emozionanti partite
che facevo all’asilo, e già a quei tempi me la cavavo. Ogni tanto cadevo e ogni
volta, o mi sbucciavo un ginocchio, o mi tagliavo, causa gli aguzzi sassi del
cortile. Ogni anno che passava la mia passione per questo gioco aumentava. Le
partite diventavano sempre più agguerrite.
Dal
piccolo cortile dell’asilo a quello della scuola. Dal cortile del mio quartiere
al campo vero e proprio dell’oratorio. E per me parevano sempre piccoli.
Arrivai
anche al punto di giocare nella squadra giovanile dell’oratorio. Ora milito in
una squadretta formata da alcuni miei compagni. Ormai sono abile nel
palleggiare, nel tirare, nel crossare la palla, e le partite che facevo all’asilo
sono solo ricordi. Ogni volta che dribblo un avversario mi sento un campione,
ma quando perdo la palla o sbaglio un rigore, mi sento ancora un implume. Se
poi segno un goal la mia euforia è al culmine. Abbraccio i miei compagni e
salto di contentezza.
Le
avanzate fulminee, le incursioni penetranti, i dribling spettacolari e i
passaggi penetranti sono il mio forte. Ogni qual volta mi appresto per tirare un
rigore, mi pare di udire le urla della folla. Se poi la mia squadra vince, la
mia gioia è al massimo.
Se
ora sono bravo in questo gioco, è merito del mio costante allenamento, e solo
se continuerò così potrò raggiungere traguardi più elevati.
otto
martedì 25 aprile 2017
Buona azione
Oggi la mia buona azione l'ho compiuta. In verità le buone azioni non sono la mia specialità, ma oggi la mia coscienza gongola. Da giorni la mia casa è presa d'assalto dalle formiche. Vinco una battaglia, e un'altra linea del fronte si apre. Le seguo, le snido, le schiaccio, spruzzo polvere venefica, ma la guerra non è ancora vinta. Stamani (la foto rende poco) una formica stava trasportando il cadavere di una sorella lungo lo stipite di una porta, in salita. Mi ha insegnato qualcosa. Non le ho tolto la vita.
I miei temi
Ho conservato i quaderni di 5^ elementare, as 1966-67, maestro Angelo Visconti (foto). Ecco quello del 25 aprile.
Tema
Celebrazioni
patriottiche
Svolgimento
La
storia dell’uomo, è un susseguirsi di atti di eroismo, di amor di patria, da
parte di uomini che, per rendere la loro patria unita e indipendente, hanno
dovuto sacrificarsi e morire. Per ricordare questi eroi, si svolgono
celebrazioni patriottiche. Che cosa sono? Sono commemorazioni, che ricordano il
patriottismo di una o più persone. Una di queste celebrazioni si svolge il
venticinque aprile, anniversario della liberazione e della scacciata dei
Tedeschi dalla penisola. In tutte le città italiane, in occasione del venticinque
aprile, autorità e sindaci pongono, su lapidi e tombe, corono d’alloro, simbolo
del trionfo. Persino il presidente Saragat, persona importantissima, nel
momento in cui porge corone d’alloro sulle tombe, si sente piccolo e meno
importante di quelle persone, che ora giacciono nella terra nuda, ma che hanno
contribuito alla libertà d’Italia. Nel municipio, nelle caserme, nelle
prigioni, nelle scuole, nelle banche viene esposto il tricolore. Le scuole sono
chiuse, per dare la possibilità ai ragazzi ormai grandicelli di assistere a
queste celebrazioni. Molte volte, però, alcuni ragazzi trascurano questi doveri
di cittadino.
Le
prime pagine dei quotidiani sono cariche di notizie su quest’avvenimento. Sui
muri appaiono manifesti con grandi scritte: “In occasione del ventiduesimo
anniversario della liberazione italiana, si terrà, a palazzo estense, una
celebrazione sul patriottismo italiano: Parteciperà il sindaco di Varese Franco
Ossola”.
Queste
celebrazioni patriottiche hanno uno scopo: quello di far comprendere ai giovani
d’oggi che la vita è una guerra continua, bisogna lottare, bisogna seguire l’esempio
dei patrioti, che se non ci fossero stati, l’Italia non avrebbe avuto la
libertà e l’indipendenza che ha ora.
Sette -
lunedì 24 aprile 2017
Auguri, Elio
Felice compleanno a mio suocero Elio. Stamani, pensando a lui (morto nel 2012) ho rivisto i suoi campi coltivati, la sua passione per il giardinaggio, le sue fragole. Nel 1987, cambiando abitazione, con grande pazienza e perizia trasportò tutte le piantine da una terra all'altra.
25 aprile 1945
...Il giorno tanto atteso era giunto; per diciannove mesi i garibaldini avevano instancabilmente lavorato per demolire il nemico, l'odiato nazifascista, causa di tanti lutti. I garibaldini, audaci ma allo stesso tempo prudenti e guardinghi, senza mai lasciar trapelare alcunché potesse tradirli, per non compromettere l'opera che faticosamente stavano intraprendendo, giungevano alla lotta insurrezionale pronti a cimentarsi per la vittoria decisiva. Il glorioso 25 aprile non rappresenterà un'improvvisazione ma la logica conclusione dell'instancabile attività di questi ultimi mesi, attività capillare e continua che, se da una parte era costata ai garibaldini in termini di vite umane, dall'altra aveva fiaccato la capacità di combattere del nemico, dimostrandogli nei fatti la sua impotenza a sconfiggere una lotta che aveva radici profonde nel popolo...
Giuseppe 'Claudio' Macchi - Claudio Macchi
Resistenza contro il nazifascismo nella zona di Varese
Macchione editore & Luigi Orrigoni
Poco onore
....Mentre era in corso tale operazione venne riconosciuto un passante: si trattava di un pericoloso fascista, attivissimo nel 21 ed ora sicuro delatore di partigiani. Costui venne passato per le armi...
Giuseppe 'Claudio' Macchi-Claudio Macchi
Resistenza contro il nazifascismo nella zona di Varese
Macchione editore & Luigi Orrigoni
Questo non fa onore ai garibaldini.
Il parco della luna
ph carlozanzi
Quando penso al mio Luna Park, trovo anzitutto due cadute. La prima in bici, anni 1962-63 più o meno, giostre alla Schiranna, come oggi, in discesa in bici verso il lago, scivolata in curva, fondo viscido per pioggia fine, stop contro un paracarro di granito: ho rischiato di farla subito finita la mia vita. Poi forse l'anno dopo, Luna Park in piazzale Kennedy, caduta dentro una pozzanghera, lacrime e gettoni di autoscontro in regalo da parte di un giostraio gentile. Poi ho avuto la fortuna di tornarci come papà, e oggi addirittura come nonno.
Un calcio in culo alla malinconia!
Quando penso al mio Luna Park, trovo anzitutto due cadute. La prima in bici, anni 1962-63 più o meno, giostre alla Schiranna, come oggi, in discesa in bici verso il lago, scivolata in curva, fondo viscido per pioggia fine, stop contro un paracarro di granito: ho rischiato di farla subito finita la mia vita. Poi forse l'anno dopo, Luna Park in piazzale Kennedy, caduta dentro una pozzanghera, lacrime e gettoni di autoscontro in regalo da parte di un giostraio gentile. Poi ho avuto la fortuna di tornarci come papà, e oggi addirittura come nonno.
Un calcio in culo alla malinconia!
Il racconto di Pier
Complimenti a mio cugino Pierluigi Tamborini detto Pier, giornalista in pensione, narratore in piena azione. Con questo racconto breve ha vinto il Premio 'De gustibus' a Treviso.
IL SEGRETO
di Pierluigi Tamborini
Nella foto mio nonno è il secondo da
sinistra. Ha lo sguardo fiero di chi ha appena compiuto un’impresa. Lui, e così
pure gli altri dieci che lo accompagnano in questa immagine consegnata a giorni
polverosi e che la memoria rifiuta. Una vera squadra, ma niente a che vedere
con il calcio, sono undici operai con l’abito della festa e il giorno in cui fu
scattata c’era anche chi non aveva i soldi per la giacca e aveva dovuto farsela
prestare. Ma l’occasione era troppo importante per non essere lì quella mattina
di primavera, il 25 aprile del 1933.
La foto mi accompagna da sempre, fa parte della vita della mia famiglia e mio nonno, Angelo Scarpa da Pellestrina l’ha sbandierata per anni con l’orgoglio di chi può dire “io c’ero”.
Adesso campeggia nel mio studio e ogni tanto la riguardo, anche se conosco tutti i particolari, i nomi degli altri, quasi tutti veneziani come il nonno e qualche foresto, due friulani e un polacco di nome Kasimir, che chissà quale strano vento aveva portato in laguna.
E poi c’è lui, Esteban, lo spagnolo, o meglio il catalano come amava definire se stesso, mentre affermava con forza che Barcellona non era Spagna ma qualcos’altro. Ma a me, che ero soltanto un bambino, non importava la sua provenienza.
Esteban, per me era e sarebbe sempre rimasto l’”uomo del caffè”.
Undici operai in una foto che ha avuto il suo momento di gloria soltanto sul Gazzettino, ventiquattr’ore dopo che fu scattata. Poi il mondo è andato avanti e tutti se la sono dimenticata. Tutti o quasi. Nella mia vita è molto più importante di quell’altra, scattata soltanto sette mesi prima e che ancor oggi tutti conoscono. Mi riferisco a quegli undici operai immortalati durante la pausa pranzo a 260 metri d’altezza mentre stanno costruendo il Rockfeller Center di New York. Un’altra squadra, un’altra storia.
E ogni giorno, quando apro le finestre del mio studio, la vista mi cade, insieme a una quotidiana perplessità, sull’immagine ormai familiare del ponte di Calatrava, tra piazzale Roma e Santa Lucia. E allora non posso che riguardare la mia foto preferita che mi ricorda un ponte diverso, quello della Libertà, inaugurato il 25 aprile del ‘33 con un altro nome, il ponte che mio nonno, Angelo Scarpa da Pellestrina, classe di ferro 1911, ha contribuito a costruire.
La osservo, la scruto, rivedo le mie radici, uomini ormai cancellati da ogni calendario, ma che sembrano rivivere ogni volta che li guardi. Tutti con una grande emozione sul viso e una medaglia appesa alla giacca nientemeno che dal Principe di Piemonte.
“Voi oggi siete premiati come la miglior squadra che ha costruito il ponte, siatene fieri, per la gloria di Venezia e di tutta l’Italia”. Più o meno aveva detto così Umberto II mentre li passava in rassegna insieme alla futura regina Maria Josè.
Quel giorno di festa era presente anche il Duce, ma sua Eccellenza il cavalier Benito Mussolini si era limitato ad uno sguardo condiscendente, mentre stringeva mani ben più importanti di quelle di undici poveri operai. Ma al nonno, socialista vecchio stampo e antifascista dichiarato, la cosa andava più che bene. Anzi.
“Guarda Marco- mi diceva, e per me era la più bella delle fiabe- questo è il mio compagno di bacaro, Nane Vianello, quest’altro è il Toni Boscolo da Chioggia, detto “Carega” perché appena poteva si riposava, questo è lo Zanutti che veniva giù da Sequals, come il grande pugile Primo Carnera. E guarda Kasimir che si alza sulle punte dei piedi per sembrare più alto. Pensa che in previsione del giorno fatidico aveva disperatamente cercato il cappello più alto che potesse trovare per non sembrare il nano della compagnia”.
Parlava di tutti Angelo Scarpa da Pellestrina, di tutti ma non di Esteban.
Lo scruto anche oggi quello spagnolo, pardon quel catalano, e non posso che ricordare con una dolce nostalgia il segreto che per tanti anni ha legato così strettamente il nonno con l’uomo cresciuto all’ombra della Sagrada familia.
Eppure ad uno sguardo appena attento non sarebbe mai sfuggito che nella foto aveva qualcosa di diverso rispetto agli altri dieci. Era un uomo affascinante Esteban, quello che le donne definirebbero “il bel tenebroso”, andava fiero dei suoi baffoni e della sua capigliatura impomatata, una specie di Rodolfo Valentino di periferia.
La foto mi accompagna da sempre, fa parte della vita della mia famiglia e mio nonno, Angelo Scarpa da Pellestrina l’ha sbandierata per anni con l’orgoglio di chi può dire “io c’ero”.
Adesso campeggia nel mio studio e ogni tanto la riguardo, anche se conosco tutti i particolari, i nomi degli altri, quasi tutti veneziani come il nonno e qualche foresto, due friulani e un polacco di nome Kasimir, che chissà quale strano vento aveva portato in laguna.
E poi c’è lui, Esteban, lo spagnolo, o meglio il catalano come amava definire se stesso, mentre affermava con forza che Barcellona non era Spagna ma qualcos’altro. Ma a me, che ero soltanto un bambino, non importava la sua provenienza.
Esteban, per me era e sarebbe sempre rimasto l’”uomo del caffè”.
Undici operai in una foto che ha avuto il suo momento di gloria soltanto sul Gazzettino, ventiquattr’ore dopo che fu scattata. Poi il mondo è andato avanti e tutti se la sono dimenticata. Tutti o quasi. Nella mia vita è molto più importante di quell’altra, scattata soltanto sette mesi prima e che ancor oggi tutti conoscono. Mi riferisco a quegli undici operai immortalati durante la pausa pranzo a 260 metri d’altezza mentre stanno costruendo il Rockfeller Center di New York. Un’altra squadra, un’altra storia.
E ogni giorno, quando apro le finestre del mio studio, la vista mi cade, insieme a una quotidiana perplessità, sull’immagine ormai familiare del ponte di Calatrava, tra piazzale Roma e Santa Lucia. E allora non posso che riguardare la mia foto preferita che mi ricorda un ponte diverso, quello della Libertà, inaugurato il 25 aprile del ‘33 con un altro nome, il ponte che mio nonno, Angelo Scarpa da Pellestrina, classe di ferro 1911, ha contribuito a costruire.
La osservo, la scruto, rivedo le mie radici, uomini ormai cancellati da ogni calendario, ma che sembrano rivivere ogni volta che li guardi. Tutti con una grande emozione sul viso e una medaglia appesa alla giacca nientemeno che dal Principe di Piemonte.
“Voi oggi siete premiati come la miglior squadra che ha costruito il ponte, siatene fieri, per la gloria di Venezia e di tutta l’Italia”. Più o meno aveva detto così Umberto II mentre li passava in rassegna insieme alla futura regina Maria Josè.
Quel giorno di festa era presente anche il Duce, ma sua Eccellenza il cavalier Benito Mussolini si era limitato ad uno sguardo condiscendente, mentre stringeva mani ben più importanti di quelle di undici poveri operai. Ma al nonno, socialista vecchio stampo e antifascista dichiarato, la cosa andava più che bene. Anzi.
“Guarda Marco- mi diceva, e per me era la più bella delle fiabe- questo è il mio compagno di bacaro, Nane Vianello, quest’altro è il Toni Boscolo da Chioggia, detto “Carega” perché appena poteva si riposava, questo è lo Zanutti che veniva giù da Sequals, come il grande pugile Primo Carnera. E guarda Kasimir che si alza sulle punte dei piedi per sembrare più alto. Pensa che in previsione del giorno fatidico aveva disperatamente cercato il cappello più alto che potesse trovare per non sembrare il nano della compagnia”.
Parlava di tutti Angelo Scarpa da Pellestrina, di tutti ma non di Esteban.
Lo scruto anche oggi quello spagnolo, pardon quel catalano, e non posso che ricordare con una dolce nostalgia il segreto che per tanti anni ha legato così strettamente il nonno con l’uomo cresciuto all’ombra della Sagrada familia.
Eppure ad uno sguardo appena attento non sarebbe mai sfuggito che nella foto aveva qualcosa di diverso rispetto agli altri dieci. Era un uomo affascinante Esteban, quello che le donne definirebbero “il bel tenebroso”, andava fiero dei suoi baffoni e della sua capigliatura impomatata, una specie di Rodolfo Valentino di periferia.
Quella differenza non mi era
sfuggita nemmeno da bambino, i piccoli si sa hanno un mondo loro e domandano
sempre il perché di tutte le cose.
E allora chiesi al nonno: “Perché tutti guardano avanti sorridendo e invece Esteban sembra così triste e sta guardando te?”
“Non ti sfugge proprio niente eh? –aveva risposto- Tuttavia la spiegazione è semplice: Esteban mi sta guardando perché si è distratto proprio nel momento in cui il fotografo scattava. A quei tempi una lastra era costosa e rifare la foto voleva dire perdere soldi. Ecco come è andata. Soddisfatto, curiosone?”
Non mi era rimasto altro che abbozzare, ma sentivo che mi era stata raccontata una mezza verità, soltanto per farmi stare buono. Il motivo era ben diverso e passarono parecchi anni prima che Angelo Scarpa da Pellestrina mi parlasse ancora del segreto dell’”uomo del caffe”.
E allora chiesi al nonno: “Perché tutti guardano avanti sorridendo e invece Esteban sembra così triste e sta guardando te?”
“Non ti sfugge proprio niente eh? –aveva risposto- Tuttavia la spiegazione è semplice: Esteban mi sta guardando perché si è distratto proprio nel momento in cui il fotografo scattava. A quei tempi una lastra era costosa e rifare la foto voleva dire perdere soldi. Ecco come è andata. Soddisfatto, curiosone?”
Non mi era rimasto altro che abbozzare, ma sentivo che mi era stata raccontata una mezza verità, soltanto per farmi stare buono. Il motivo era ben diverso e passarono parecchi anni prima che Angelo Scarpa da Pellestrina mi parlasse ancora del segreto dell’”uomo del caffe”.
All’inizio degli anni Trenta
Venezia era unita alla terraferma da un ponte ferroviario, costruito quasi un
secolo prima, ma il Regime, che aveva un feeling particolare con le opere
pubbliche di grande evidenza, aveva deciso che un ponte per le auto sarebbe stato
indispensabile e lanciò la sfida.
La raccolse un ingegnere di origine bresciana, Eugenio Miozzi che si era distinto per importanti opere stradali in Libia. Offriva affidabilità e un curriculum tale che era difficile, se non impossibile, lasciarselo scappare. Era l’uomo giusto e in soli ventuno mesi i lavori, cominciati nel luglio del 1931, furono terminati.
Per quei tempi un’opera faraonica, quattro chilometri di lunghezza, il ponte più lungo del mondo.
Era costruito sui terreni paludosi delle barene, usando migliaia di palafitte, quarantamila metri cubi di calcestruzzo, ventimila metri cubi di mattoni, oltre quarantamila tonnellate di pietre da taglio, senza contare le infrastrutture metalliche. Un inno all’ingegno umano.
La raccolse un ingegnere di origine bresciana, Eugenio Miozzi che si era distinto per importanti opere stradali in Libia. Offriva affidabilità e un curriculum tale che era difficile, se non impossibile, lasciarselo scappare. Era l’uomo giusto e in soli ventuno mesi i lavori, cominciati nel luglio del 1931, furono terminati.
Per quei tempi un’opera faraonica, quattro chilometri di lunghezza, il ponte più lungo del mondo.
Era costruito sui terreni paludosi delle barene, usando migliaia di palafitte, quarantamila metri cubi di calcestruzzo, ventimila metri cubi di mattoni, oltre quarantamila tonnellate di pietre da taglio, senza contare le infrastrutture metalliche. Un inno all’ingegno umano.
Ma, dietro ai freddi numeri, stava
soprattutto la fatica immane degli operai. “I turni –raccontava Angelo- erano
massacranti e per guadagnare tempo anche noi veneziani eravamo ospitati in
alcune baracche alla sacca di san Girolamo, quella che tutti oggi conoscono
come la Baia del re.
Un nome che sentivamo spesso urlato da Giacomino, il piccolo ebreo del Ghetto, strillone in piazza San Marco. Aveva una giacca tutta rattoppata e un berretto in testa dentro il quale si perdeva, ma era sano e forte e riusciva a portare un pacco enorme di giornali. Si metteva lì, nella piazzetta dei Leoncini, all’ombra della basilica e noi lo sentivamo fin dalle Procuratie. Ci andavamo la domenica a passeggiare e a vedere i signori prendere il caffè, quello vero, al Quadri e al Florian. Giacomino raccontava alla gente che sul Gazzettino stava scritta la storia di Umberto Nobile e del suo dirigibile Italia, del freddo polare della Baia del re alle isole Svalbard. Lo stesso freddo che c’era nelle nostre baracche. Ci venne così naturale soprannominare quel punto di Venezia allo stesso modo.”
Lavorava bene la squadra di Angelo perché era una specie di orchestra della fatica, dove nessuno batteva la fiacca, nemmeno il Carega, nemmeno il piccolo Kasimir che a dispetto dell’altezza, aveva una forza sovrumana. Nemmeno Esteban che sollevava pesi con una facilità disarmante.
Poi, durante la pausa pranzo, dalla vicina osteria di Alvise, arrivavano alcune ragazze portando del cibo. Tra di loro c’era anche Nina, la figlia del padrone del locale.
“Era bella la Nina –mi disse un giorno il nonno, quando ormai ero un giovane che si affacciava alla vita-. Era bella come un sogno, nei suoi grandi occhi colore del caffè io leggevo un’onda di promesse lunga come il Canal Grande e il futuro che ogni innamorato sogna, ma poi… su non farmi dire altro che se ci sente quella santa donna di tua nonna Adele sono dolori”.
“Dopo il pranzo –quel vecchio brontolone chiudeva gli occhi e continuava il suo racconto- veniva il momento del caffè, roba per i signori, anche se gli anni dell’autarchia non erano ancora arrivati. Lo portava Esteban in uno strano recipiente che da solo meriterebbe una storia. Chiamarlo caffè era un pio desiderio, era più che altro d’orzo, o fatto con la cicoria, ma quel maledetto spagnolo aveva un trucco per renderlo buono, anzi degno di una tavola principesca. Più volte gli avevamo chiesto che diavolo ci avesse messo dentro per renderlo così, ma lui si limitava a sorridere e a dire “un segreto è un segreto”. Allora mi ingegnavo per capire quali fossero gli ingredienti. Un giorno lo affrontai e dissi: “Ho capito tutto, ci metti la noce moscata e il cardamomo”. Esteban si mise a ridere: “ E bravo Angelo, hai quasi indovinato, soltanto che manca il terzo elemento, senza il quale la magia non si compie. Hai capito Angelo? Magia. Perdonami, ma dovrai restare con la tua curiosità”
Un nome che sentivamo spesso urlato da Giacomino, il piccolo ebreo del Ghetto, strillone in piazza San Marco. Aveva una giacca tutta rattoppata e un berretto in testa dentro il quale si perdeva, ma era sano e forte e riusciva a portare un pacco enorme di giornali. Si metteva lì, nella piazzetta dei Leoncini, all’ombra della basilica e noi lo sentivamo fin dalle Procuratie. Ci andavamo la domenica a passeggiare e a vedere i signori prendere il caffè, quello vero, al Quadri e al Florian. Giacomino raccontava alla gente che sul Gazzettino stava scritta la storia di Umberto Nobile e del suo dirigibile Italia, del freddo polare della Baia del re alle isole Svalbard. Lo stesso freddo che c’era nelle nostre baracche. Ci venne così naturale soprannominare quel punto di Venezia allo stesso modo.”
Lavorava bene la squadra di Angelo perché era una specie di orchestra della fatica, dove nessuno batteva la fiacca, nemmeno il Carega, nemmeno il piccolo Kasimir che a dispetto dell’altezza, aveva una forza sovrumana. Nemmeno Esteban che sollevava pesi con una facilità disarmante.
Poi, durante la pausa pranzo, dalla vicina osteria di Alvise, arrivavano alcune ragazze portando del cibo. Tra di loro c’era anche Nina, la figlia del padrone del locale.
“Era bella la Nina –mi disse un giorno il nonno, quando ormai ero un giovane che si affacciava alla vita-. Era bella come un sogno, nei suoi grandi occhi colore del caffè io leggevo un’onda di promesse lunga come il Canal Grande e il futuro che ogni innamorato sogna, ma poi… su non farmi dire altro che se ci sente quella santa donna di tua nonna Adele sono dolori”.
“Dopo il pranzo –quel vecchio brontolone chiudeva gli occhi e continuava il suo racconto- veniva il momento del caffè, roba per i signori, anche se gli anni dell’autarchia non erano ancora arrivati. Lo portava Esteban in uno strano recipiente che da solo meriterebbe una storia. Chiamarlo caffè era un pio desiderio, era più che altro d’orzo, o fatto con la cicoria, ma quel maledetto spagnolo aveva un trucco per renderlo buono, anzi degno di una tavola principesca. Più volte gli avevamo chiesto che diavolo ci avesse messo dentro per renderlo così, ma lui si limitava a sorridere e a dire “un segreto è un segreto”. Allora mi ingegnavo per capire quali fossero gli ingredienti. Un giorno lo affrontai e dissi: “Ho capito tutto, ci metti la noce moscata e il cardamomo”. Esteban si mise a ridere: “ E bravo Angelo, hai quasi indovinato, soltanto che manca il terzo elemento, senza il quale la magia non si compie. Hai capito Angelo? Magia. Perdonami, ma dovrai restare con la tua curiosità”
Che strana faccenda, Esteban
e il suo recipiente magico che serviva a far arrivare il caffè, preparato ore
prima, ancora caldo alla mensa degli operai. Era quasi un rito e nei suoi gesti
vi leggevo qualcosa di sacro. Un giorno confidò a tutta la compagnia la storia
di quello strano contenitore.
“Sapete chi me lo ha regalato?” E di fronte ad un generale silenzio, aggiunse: “Lui in persona”.
“I..i..il du..duce” balbettò Nane Vianello.
“Ma che stai dicendo, tonto lo apostrofò Esteban. “Questa meraviglia me l’ha regalata nientemeno che Antoni Gaudì”.
“E chi è?” ragliarono tutti in coro.
“Cabras, madre de Dios- sbottò Esteban battendosi il petto- branco de cabras.
Gaudì è stato un genio assoluto dell’architettura, mi spiace per Miozzi ma se ci fosse stato lui questo ponte sarebbe tutta un’altra cosa. Avete mai sentito parlare della Sagrada familia?”
Venne fuori che nessuno di noi sapeva che cos’era, ma che si poteva pretendere da una compagnia di quasi analfabeti? Esteban lo sapeva molto bene invece perché qualche anno prima aveva lavorato a quella fabbrica infinita e Gaudì lo aveva notato, per la sua precisione ed il suo attaccamento al lavoro, prendendolo a benvolere fin quando il famoso architetto attraversò la strada davanti al tram sbagliato.
Ma questa è un’altra storia.
E a proposito di storie, a me per anni restò la curiosità di sapere che fine avesse fatto la Nina. Quel discorso appena accennato Angelo lo riprese soltanto qualche anno più tardi dopo che nonna Adele si era spenta a causa di una grave malattia. Si erano voluti un gran bene per una vita. Da che mi ricordi li avevo sempre visti innamorati. Lui durante la guerra era finito nella campagna di Russia dalla quale era tornato più morto che vivo, ma Adele lo aveva aspettato, sicura di lui e del loro amore.
E anche la Nina nei suoi racconti era diventata un fantasma leggero, del quale parlava anche volentieri ma sempre rigorosamente lontano dalle orecchie della moglie, la quale sosteneva di non essere gelosa di una storia morta e sepolta, ma si sa come sono le femmine, meglio evitare, per il bene di tutti.
“Nina rappresentava la bellezza, rappresentava il sogno, o forse più semplicemente era lo specchio della mia gioventù. Non c’erano state promesse esplicite ma tutti sapevano che tra me e la Nina c’era un legame particolare e nessuno avrebbe dovuto intromettersi. Oggi penso a come ero a vent’anni e mi viene da sorridere per la mia ingenuità. In fondo ringrazio Dio per come si è svolta la mia vita, sono contento, altrimenti non avrei mai conosciuto Adele e nemmeno tu saresti qui oggi ad ascoltarmi”- mi disse con malcelata emozione.
“Ricordi quando da bambino insistevi su quella foto? Era quasi una litania, Esteban guarda te, Esteban guarda te…Non la finivi mai, però devo dire che come investigatore non eri niente male. Quell’accidente di spagnolo stava guardando proprio me e lo faceva perché mi stava per combinare un tiro mancino, anche se non avrebbe voluto farmi soffrire, ma questo all’epoca non avrei mai potuto capirlo.
Il giorno dopo Alvise, l’oste, trovò una lettera della figlia che gli chiedeva perdono e un’altra lettera destinata a me. “Caro Angelo –diceva- chiedo perdono anche a te e due volte. Mi sono accorta di essere innamorata di Esteban e non ho trovato il coraggio di dirtelo in faccia. Me ne vado insieme a lui, ha trovato lavoro a Barcellona. Ho provato a ragionare e a non ascoltare il mio cuore, ma sento dentro qualcosa più forte di me a cui non posso resistere. So che adesso proverai odio e risentimento nei miei confronti ma spero che un giorno tu possa perdonarmi”.
Capisci Marco? In un sol colpo avevo perso l’amore e l’amicizia”.
“Sapete chi me lo ha regalato?” E di fronte ad un generale silenzio, aggiunse: “Lui in persona”.
“I..i..il du..duce” balbettò Nane Vianello.
“Ma che stai dicendo, tonto lo apostrofò Esteban. “Questa meraviglia me l’ha regalata nientemeno che Antoni Gaudì”.
“E chi è?” ragliarono tutti in coro.
“Cabras, madre de Dios- sbottò Esteban battendosi il petto- branco de cabras.
Gaudì è stato un genio assoluto dell’architettura, mi spiace per Miozzi ma se ci fosse stato lui questo ponte sarebbe tutta un’altra cosa. Avete mai sentito parlare della Sagrada familia?”
Venne fuori che nessuno di noi sapeva che cos’era, ma che si poteva pretendere da una compagnia di quasi analfabeti? Esteban lo sapeva molto bene invece perché qualche anno prima aveva lavorato a quella fabbrica infinita e Gaudì lo aveva notato, per la sua precisione ed il suo attaccamento al lavoro, prendendolo a benvolere fin quando il famoso architetto attraversò la strada davanti al tram sbagliato.
Ma questa è un’altra storia.
E a proposito di storie, a me per anni restò la curiosità di sapere che fine avesse fatto la Nina. Quel discorso appena accennato Angelo lo riprese soltanto qualche anno più tardi dopo che nonna Adele si era spenta a causa di una grave malattia. Si erano voluti un gran bene per una vita. Da che mi ricordi li avevo sempre visti innamorati. Lui durante la guerra era finito nella campagna di Russia dalla quale era tornato più morto che vivo, ma Adele lo aveva aspettato, sicura di lui e del loro amore.
E anche la Nina nei suoi racconti era diventata un fantasma leggero, del quale parlava anche volentieri ma sempre rigorosamente lontano dalle orecchie della moglie, la quale sosteneva di non essere gelosa di una storia morta e sepolta, ma si sa come sono le femmine, meglio evitare, per il bene di tutti.
“Nina rappresentava la bellezza, rappresentava il sogno, o forse più semplicemente era lo specchio della mia gioventù. Non c’erano state promesse esplicite ma tutti sapevano che tra me e la Nina c’era un legame particolare e nessuno avrebbe dovuto intromettersi. Oggi penso a come ero a vent’anni e mi viene da sorridere per la mia ingenuità. In fondo ringrazio Dio per come si è svolta la mia vita, sono contento, altrimenti non avrei mai conosciuto Adele e nemmeno tu saresti qui oggi ad ascoltarmi”- mi disse con malcelata emozione.
“Ricordi quando da bambino insistevi su quella foto? Era quasi una litania, Esteban guarda te, Esteban guarda te…Non la finivi mai, però devo dire che come investigatore non eri niente male. Quell’accidente di spagnolo stava guardando proprio me e lo faceva perché mi stava per combinare un tiro mancino, anche se non avrebbe voluto farmi soffrire, ma questo all’epoca non avrei mai potuto capirlo.
Il giorno dopo Alvise, l’oste, trovò una lettera della figlia che gli chiedeva perdono e un’altra lettera destinata a me. “Caro Angelo –diceva- chiedo perdono anche a te e due volte. Mi sono accorta di essere innamorata di Esteban e non ho trovato il coraggio di dirtelo in faccia. Me ne vado insieme a lui, ha trovato lavoro a Barcellona. Ho provato a ragionare e a non ascoltare il mio cuore, ma sento dentro qualcosa più forte di me a cui non posso resistere. So che adesso proverai odio e risentimento nei miei confronti ma spero che un giorno tu possa perdonarmi”.
Capisci Marco? In un sol colpo avevo perso l’amore e l’amicizia”.
Passarono gli anni, arrivò
Adele e la Nina divenne una figura sempre più sbiadita, qualcosa più leggero di
un ricordo.
Fu all’inizio del ’44, mentre il nonno tentava disperatamente di resistere al freddo della Russia, che arrivò una lettera da Barcellona, indirizzata ad Angelo Scarpa. Adele resistette un giorno, un altro ancora poi, vinti i sensi di colpa, la lesse tutta d’un fiato. Più tardi, mentre a Venezia un sottile nevischio tentava di confondere i contorni di case e palazzi prima di morire nella laguna, la ripose in un libro nella piccola biblioteca di casa, promettendo solennemente a se stessa che l’avrebbe consegnata ad Angelo una volta tornato dalla guerra. Ma quando il marito, un paio d’anni dopo si presentò alla porta di casa in uno stato da far pietà, Adele, sopraffatta da una serie di sentimenti più grandi di lei, si dimenticò, o volle dimenticarsi di quella lettera che rimase per un sacco di tempo la testimonianza inascoltata di un passato sempre più distante.
“Ma la ritrovai, sai Marco, la ritrovai nel momento più difficile della mia vita. La nonna ci aveva appena lasciato ed io non sapevo darmi pace. Riposava da almeno trent’anni in un libro di poesie che nemmeno avevo letto ma che Adele amava in modo particolare. Un giorno mi ero messo a sfogliarlo come se le parole di quel poeta potessero aiutarmi a farla tornare indietro e invece indietro tornarono emozioni lontane, insieme agli occhi color caffè della Nina. Lei, che era sempre in contatto col padre, aveva saputo del mio matrimonio e aveva trovato il coraggio di raccontarmi di sé, di Esteban e della loro nuova vita.
A Barcellona erano stati anni duri all’inizio, ma poi , un poco alla volta le cose si erano sistemate. Esteban aveva lasciato il suo lavoro di muratore, e assieme alla Nina, aveva aperto un locale che, grazie al magico segreto del caffè, aveva ottenuto un successo al di là di ogni aspettativa. Loro insistevano perché andassimo a trovarli, ma ero rimasto solo e non me la sentivo di confrontarmi con l’altrui felicità e poi erano passati trent’anni da quando quella lettera era stata spedita e chissà quanto altro era successo.
Restava il segreto del caffè che, forse come un’inconscia forma di risarcimento, quei due rivelavano alla fine dello scritto.
Quando lessi del terzo elemento mi venne da sorridere perché in fondo avevo già da tempo capito di che si trattava”.
Pensate che il nonno me lo abbia rivelato? Certo che no, nonostante le mie reiterate insistenze fu irremovibile.
“E non è per cattiveria –mi disse- soltanto che è giusto che anche tu ci arrivi da solo. E’ un segreto semplice, ti sta davanti agli occhi, ma, come spesso accade, guardiamo troppo lontano, mentre dovremmo accendere una luce dentro di noi”.
Fu all’inizio del ’44, mentre il nonno tentava disperatamente di resistere al freddo della Russia, che arrivò una lettera da Barcellona, indirizzata ad Angelo Scarpa. Adele resistette un giorno, un altro ancora poi, vinti i sensi di colpa, la lesse tutta d’un fiato. Più tardi, mentre a Venezia un sottile nevischio tentava di confondere i contorni di case e palazzi prima di morire nella laguna, la ripose in un libro nella piccola biblioteca di casa, promettendo solennemente a se stessa che l’avrebbe consegnata ad Angelo una volta tornato dalla guerra. Ma quando il marito, un paio d’anni dopo si presentò alla porta di casa in uno stato da far pietà, Adele, sopraffatta da una serie di sentimenti più grandi di lei, si dimenticò, o volle dimenticarsi di quella lettera che rimase per un sacco di tempo la testimonianza inascoltata di un passato sempre più distante.
“Ma la ritrovai, sai Marco, la ritrovai nel momento più difficile della mia vita. La nonna ci aveva appena lasciato ed io non sapevo darmi pace. Riposava da almeno trent’anni in un libro di poesie che nemmeno avevo letto ma che Adele amava in modo particolare. Un giorno mi ero messo a sfogliarlo come se le parole di quel poeta potessero aiutarmi a farla tornare indietro e invece indietro tornarono emozioni lontane, insieme agli occhi color caffè della Nina. Lei, che era sempre in contatto col padre, aveva saputo del mio matrimonio e aveva trovato il coraggio di raccontarmi di sé, di Esteban e della loro nuova vita.
A Barcellona erano stati anni duri all’inizio, ma poi , un poco alla volta le cose si erano sistemate. Esteban aveva lasciato il suo lavoro di muratore, e assieme alla Nina, aveva aperto un locale che, grazie al magico segreto del caffè, aveva ottenuto un successo al di là di ogni aspettativa. Loro insistevano perché andassimo a trovarli, ma ero rimasto solo e non me la sentivo di confrontarmi con l’altrui felicità e poi erano passati trent’anni da quando quella lettera era stata spedita e chissà quanto altro era successo.
Restava il segreto del caffè che, forse come un’inconscia forma di risarcimento, quei due rivelavano alla fine dello scritto.
Quando lessi del terzo elemento mi venne da sorridere perché in fondo avevo già da tempo capito di che si trattava”.
Pensate che il nonno me lo abbia rivelato? Certo che no, nonostante le mie reiterate insistenze fu irremovibile.
“E non è per cattiveria –mi disse- soltanto che è giusto che anche tu ci arrivi da solo. E’ un segreto semplice, ti sta davanti agli occhi, ma, come spesso accade, guardiamo troppo lontano, mentre dovremmo accendere una luce dentro di noi”.
E’ stata una lunga storia e
adesso il buio sta per accogliere Venezia tra le sue braccia. Allora mi alzo,
un ultimo sguardo perplesso al ponte di Calatrava che una sottile nebbia sta
inutilmente cercando di celare alla vista, chiudo le imposte e guardo ancora
una volta la foto di undici uomini speciali, prima di prendere la strada di
casa.
E’ una sera tranquilla, quasi nessuno per strada, un’ovattata atmosfera di tregua dopo l’assalto quotidiano alla città. Venezia sa ancora difendersi.
Decido per una piccola deviazione dal Ghetto verso la Baia del re immaginando ancora le baracche che ospitavano gli uomini del ponte. E il ponte è là, con le luci sempre più fioche che si riflettono dentro un’acqua metallica e senza memoria.
In questo punto la laguna guarda verso San Giuliano e la terraferma, ma la nebbia si è messa in testa di cancellare tutto, tranne una panchina dove un ragazzo ed una ragazza si stanno abbracciando e si guardano come se il mondo finisse lì e non ci fosse la promessa di un domani. Ed è stato in quel preciso istante, lì, alla Baia del re, che la nebbia che avevo dentro si è sollevata ed ho davvero capito tutto.
E’ una sera tranquilla, quasi nessuno per strada, un’ovattata atmosfera di tregua dopo l’assalto quotidiano alla città. Venezia sa ancora difendersi.
Decido per una piccola deviazione dal Ghetto verso la Baia del re immaginando ancora le baracche che ospitavano gli uomini del ponte. E il ponte è là, con le luci sempre più fioche che si riflettono dentro un’acqua metallica e senza memoria.
In questo punto la laguna guarda verso San Giuliano e la terraferma, ma la nebbia si è messa in testa di cancellare tutto, tranne una panchina dove un ragazzo ed una ragazza si stanno abbracciando e si guardano come se il mondo finisse lì e non ci fosse la promessa di un domani. Ed è stato in quel preciso istante, lì, alla Baia del re, che la nebbia che avevo dentro si è sollevata ed ho davvero capito tutto.
domenica 23 aprile 2017
24 aprile 1945
24 aprile 1945 - Nel primo mattino i garibaldini asportarono da tutti i principali incroci cittadini i cartelli indicatori che per tanto tempo erano serviti ai nazisti; ormai per costoro doveva essere preclusa la via della salvezza. In località Cuor di sasso cinque garibaldini fermano un caporale maggiore della G.N.R. e procedono al suo disarmo, entrando così in possesso di un fucile 91 e di uno zaino con 5 bombe a mano...
Giuseppe 'Claudio' Macchio - Claudio Macchi
Resistenza contro il nazifascismo nella zona di Varese
Macchione editore & Luigi Orrigoni
Fausto, l'Adamollo del Duemila
Ho beccato in flagranza di 'reato' l'amico giornalista Fausto Bonoldi, in quella che è la sua attuale (da pensionato) occupazione giornaliera: fare ancora cronaca in vario modo della sua città, utilizzando i social, una macchina fotografica digitale e poche parole scritte. E così confronta il vecchio con il nuovo, va alla scoperta di cortile, di rarità varesine, di personaggi, vie.....insomma, una sorta di Adamollo (colui che scrisse le cronache varesine nel Settecento) del Duemila. E bravo il nostro grande Fausto!
E le rondini stavano a guardare
'....Cinque garibaldini armati di mitra attaccavano una pattuglia di militi della G.N.R. nei pressi di Bedero. I quattro fascisti in un primo tempo tentavano di reagire, ma poi gettavano le armi. Tale azione fruttava due mitra, due moschetti e una bomba a mano tedesca. Nei primi giorni di aprile si provvedeva con decisione al disarmo di due presidi della G.N.R.ad Azzate e Somma Lombardo, recuperando moschetti e rivoltelle automatiche...'
Giuseppe 'Claudio' Macchi- Claudio Macchi
Resistenza contro il nazifascismo nella zona di Varese
Macchione editore & Luigi Orrigoni
Pensando a Michele
Stamani, salendo in bici al Campo dei Fiori, ho pensato e pregato per Michele Scarponi, ciclista professionista morto ieri in allenamento, travolto da un furgone. Michele era marchigiano come mia moglie. Per i marchigiani ho un occhio di riguardo. Andare in bici è pericoloso, e chi guida auto, camion... non è mai attento abbastanza. Lo dico anche per me. Scendendo in bici dal Campo dei Fiori più di una volta ho rischiato di cadere, e non per colpa mia: auto con guidatori imprudenti, cani che uscivano dai cancelli. E' un attimo. Può andar bene e può andar male. Uno tira dritto e un altro muore.
Auguri a Paola e Gigetto
Felice anniversario di nozze ai miei amici Paola e Gigetto. Eccoli il 23 aprile del 1988, con le mie figlie Valentina e Maddalena. Un abbraccio.