mercoledì 22 ottobre 2025

I sette re di Roma

 




Ciro varcò la porta della trattoria ‘Romolo e Remo’, zona San Giovanni in Laterano, con un’urgenza: pulirsi il cappellino blu con la scritta Budapest, lordato da una cagata di parrocchetto. Il verde pappagallo alieno, volatile che stava infestando Roma e molte altre metropoli europee, aveva sganciato la sua bomba fecale in un parco davanti al Palazzo di Giustizia, centrando Ciro, pellegrino laico giunto nella capitale della cristianità per migliorare il suo stato spirituale. Con lui altri sette amici e un prete, che a Roma risiedeva e ben volentieri aveva accettato l’invito a cena di quel gruppo di turisti sui generis. Le gambe, e soprattutto i piedi di Ciro avevano parecchio da lamentarsi. Da tre giorni non facevano che camminare, salire e scendere scale verso la metropolitana, varcare porte più o meno sante, incolonnarsi in paziente attesa perché molti erano i pellegrini come loro, sollecitati verso l’Urbe da un anno giubilare.

‘Bene’ pensò, ‘finalmente ora mi riposo, pulisco ‘sta cagata, mi lavo le mani, faccio pipì e poi magno, perché dicono un gran bene di questa trattoria tipica romana. Almeno stando alle recensioni su google. Ma ci si potrà fidare? Mah…’

L’operazione in bagno (fuori c’era scritto latrina) fu rapida.

Le pareti dei locali erano tappezzate di foto con campioni dello sport, attori famosi, gente della televisione. Immagini tutte della stessa dimensione, in cornici identiche, un ordine simile a quello della processione dei Papi, appesi nei tondi a San Paolo fuori le mura. Ogni personaggio si accompagnava ad un tipo tondeggiante, basso e sempre sorridente. Un volto simpatico sopra una pancia esagerata. Ed eccolo il protagonista delle foto. Era il proprietario, un certo Orazio, che ci tenne a mettere subito le cose in chiaro: “Romolo e Remo, no, non sono li personaggi della storia de Roma. So’ i nomi de chi ha aperto sto locale, due fratelli, Romolo e Remo, rivati dall’Umbria a cercà un po’ de fortuna. Ecco er vostro tavolo.”

Subito appresso arrivò una signora magra, scattante, non bella ma nemmeno brutta, che si dimostrò attenta alle loro esigenze: “Che ve porto? ‘Na focaccetta carda? Del carciofo fritto? E da bere?”

Ora potrei tirarla per le lunghe, entrare nei particolari, attardarmi, perché ce ne sarebbe da scrivere sul concerto di spaghetti cacio e pepe, rigatoni con pancetta e carciofi, e poi carciofi alla Giudia, e trippa e coratella e lasagne e saltimbocca e l’immancabile cicoria cotta, il tutto in ammollo nel vino bianco e nel rosso, acqua a volontà, dolci, commenti lusinghieri ad ogni piatto, estasi negli occhi e gaudio nella gola. Vado veloce e arrivo al dunque. Quando si trattò dell’ora (infausta) del conto, tornò Orazio, sempre con il medesimo sorriso e neppure dimagrito di un grammo. Casomai ingrassato. Forse s’era fatto uno spiedino in cucina. “Che me dite? V’è piaciuto?”

Persino il prete lodò quell’accoglienza, stanco della cucina ecclesiale.

“Ve devo dà ‘na bella notizia. Bella non so, magari alla fine è pure brutta!”

Il gruppo restò basito.

“’Na vorta al mese, non si sa che giorno, e il giorno è questo, chi si siede prima delle otto al tavolo numero sette, giusto il vostro, può tornarsene a casa senza pagà ‘na lira…n’euro, si capisce, so’ rimasto indietro.”

Ciro guardò Orazio, e quello sguardo voleva dire: ‘Ma che diavolo stai a dì!’

“Vi farò tre domande, e chi le indovina tutte e tre regala ai suoi amici ‘sta cena gratis.”

Il prete sogghignò, era uomo di vasta cultura.

A quel punto Orazio chiamò una cameriera decisamente carina, giovane e impreziosita da un sorriso largo come il Cupolone. La ragazza giunse con un grosso contenitore. Vi erano bende per gli occhi e cuffie per sopprimere l’udito. Tutti vennero bendati e incuffiati. Uno alla volta restava senza cuffia, per ascoltare la domanda.

Anche qui andrò alla bersagliera, di corsa. La prima domanda era l’elenco dei sette re di Roma, in ordine di successione dinastica. Nessuno dei primi otto azzeccò la lista. Chi partì con un Romolo e Remo, chi sbagliò l’ordine temporale, chi confuse solo qualche lettera, chi addirittura non azzeccò neppure il primo. Toccò dunque a Ciro, che ravanò nelle sue memorie della scuola elementare e non sbagliò un colpo: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servo Tullio e Tarquinio il Superbo.

“Molto bene…per voi” disse Orazio. “Il più è fatto. Le altre due sono facili.”

“Sono pronto” disse Ciro, con aria vittoriosa e insieme timorosa.

“Bisogno sapè la storia antica, ma nun se pò dimenticà quella de oggi. Ora mi devi dì chi è er sindaco de la nostra grande Roma. Me basta il cognome, te vojo dà ‘na mano.”

Ciro era un po’ scarso in tutto, e la politica non era certo il suo forte. Partì il tempo: aveva un minuto per rispondere. Più pensava, più gli veniva da dire Rutelli, ma sapeva che il belloccio non era più sindaco da tempo. Come gli venne alla mente Gualtieri resta ancora un mistero. Sparò e ancora una volta azzeccò.

Orazio non mutò la serenità del volto, ma in cuor suo fece quattro conti: erano in nove, avevano mangiato con una certa abbondanza, diciamo almeno una trentina di euro a testa, tre per nove ventisette, duecentosettanta euro….insomma, non poco. Pensò di cambiare l’ultima domanda ma volle mantenere la tradizione del locale, che prevedeva la prima domanda sempre uguale (quelle dei sette re) ma le altre due variabili, però erano decise prima, non all’ultimo. E la domanda scelta per quella sera era facile.

“Dunque, signori, anzi, signore, visto che gli altri non sentono e non vedono. T’è rimasta l’ultima domanda. Mò tu me devi dì er nome di quel pappagalluccio verde de merda che cià ‘na voce che te spacca li timpani e li cojoni. Via col tempo!”

Ciro sorrise: “Questa la so, anche perché ha lasciato l’impronta sul cappello magiaro, regalo di mia figlia.”

“Guarda che er tempo core!”

“Hai ragione…Parrucchetto!”

Il volto di Orazio divenne radioso: “E qui casca l’asino, senza offesa naturalmente! Parrocchetto, parrocchetto. Vedi la vita? Basta sconfonne ‘na o con ‘na u e sta vitaccia te frega.”

Velocemente, la bella ragazza liberò gli avventori dall’impiccio delle bende e delle cuffie. Gli amici capirono che nemmeno Ciro ce l’aveva fatta.

“Però la vita nun te lassa a bocca secca. Camì, portace la bottiglietta che sai!”

Camilla (la bella figliola) tornò con una bottiglia di amaro Nerone.

“Questa ve la offre la casa, per non farve stà con l’amaro in bocca. Bevete alla salute vostra” e Orazio se ne andò traballando su gambe non proprio atletiche, pensando che per un altro mese la cassa era salva.  

 

 


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