Ciro
varcò la porta della trattoria ‘Romolo e Remo’, zona San Giovanni in Laterano,
con un’urgenza: pulirsi il cappellino blu con la scritta Budapest, lordato da
una cagata di parrocchetto. Il verde pappagallo alieno, volatile che stava
infestando Roma e molte altre metropoli europee, aveva sganciato la sua bomba
fecale in un parco davanti al Palazzo di Giustizia, centrando Ciro, pellegrino
laico giunto nella capitale della cristianità per migliorare il suo stato
spirituale. Con lui altri sette amici e un prete, che a Roma risiedeva e ben
volentieri aveva accettato l’invito a cena di quel gruppo di turisti sui
generis. Le gambe, e soprattutto i piedi di Ciro avevano parecchio da
lamentarsi. Da tre giorni non facevano che camminare, salire e scendere scale
verso la metropolitana, varcare porte più o meno sante, incolonnarsi in
paziente attesa perché molti erano i pellegrini come loro, sollecitati verso l’Urbe
da un anno giubilare.
‘Bene’
pensò, ‘finalmente ora mi riposo, pulisco ‘sta cagata, mi lavo le mani, faccio
pipì e poi magno, perché dicono un gran bene di questa trattoria tipica romana.
Almeno stando alle recensioni su google. Ma ci si potrà fidare? Mah…’
L’operazione
in bagno (fuori c’era scritto latrina) fu rapida.
Le
pareti dei locali erano tappezzate di foto con campioni dello sport, attori
famosi, gente della televisione. Immagini tutte della stessa dimensione, in
cornici identiche, un ordine simile a quello della processione dei Papi, appesi
nei tondi a San Paolo fuori le mura. Ogni personaggio si accompagnava ad un tipo
tondeggiante, basso e sempre sorridente. Un volto simpatico sopra una pancia
esagerata. Ed eccolo il protagonista delle foto. Era il proprietario, un certo Orazio,
che ci tenne a mettere subito le cose in chiaro: “Romolo e Remo, no, non sono
li personaggi della storia de Roma. So’ i nomi de chi ha aperto sto locale, due
fratelli, Romolo e Remo, rivati dall’Umbria a cercà un po’ de fortuna. Ecco er
vostro tavolo.”
Subito
appresso arrivò una signora magra, scattante, non bella ma nemmeno brutta, che
si dimostrò attenta alle loro esigenze: “Che ve porto? ‘Na focaccetta carda?
Del carciofo fritto? E da bere?”
Ora
potrei tirarla per le lunghe, entrare nei particolari, attardarmi, perché ce ne
sarebbe da scrivere sul concerto di spaghetti cacio e pepe, rigatoni con
pancetta e carciofi, e poi carciofi alla Giudia, e trippa e coratella e lasagne
e saltimbocca e l’immancabile cicoria cotta, il tutto in ammollo nel vino
bianco e nel rosso, acqua a volontà, dolci, commenti lusinghieri ad ogni
piatto, estasi negli occhi e gaudio nella gola. Vado veloce e arrivo al dunque.
Quando si trattò dell’ora (infausta) del conto, tornò Orazio, sempre con il
medesimo sorriso e neppure dimagrito di un grammo. Casomai ingrassato. Forse s’era
fatto uno spiedino in cucina. “Che me dite? V’è piaciuto?”
Persino
il prete lodò quell’accoglienza, stanco della cucina ecclesiale.
“Ve
devo dà ‘na bella notizia. Bella non so, magari alla fine è pure brutta!”
Il
gruppo restò basito.
“’Na
vorta al mese, non si sa che giorno, e il giorno è questo, chi si siede prima
delle otto al tavolo numero sette, giusto il vostro, può tornarsene a casa
senza pagà ‘na lira…n’euro, si capisce, so’ rimasto indietro.”
Ciro
guardò Orazio, e quello sguardo voleva dire: ‘Ma che diavolo stai a dì!’
“Vi
farò tre domande, e chi le indovina tutte e tre regala ai suoi amici ‘sta cena
gratis.”
Il
prete sogghignò, era uomo di vasta cultura.
A
quel punto Orazio chiamò una cameriera decisamente carina, giovane e impreziosita
da un sorriso largo come il Cupolone. La ragazza giunse con un grosso
contenitore. Vi erano bende per gli occhi e cuffie per sopprimere l’udito.
Tutti vennero bendati e incuffiati. Uno alla volta restava senza cuffia, per
ascoltare la domanda.
Anche
qui andrò alla bersagliera, di corsa. La prima domanda era l’elenco dei sette re
di Roma, in ordine di successione dinastica. Nessuno dei primi otto azzeccò la
lista. Chi partì con un Romolo e Remo, chi sbagliò l’ordine temporale, chi
confuse solo qualche lettera, chi addirittura non azzeccò neppure il primo.
Toccò dunque a Ciro, che ravanò nelle sue memorie della scuola elementare e non
sbagliò un colpo: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio
Prisco, Servo Tullio e Tarquinio il Superbo.
“Molto
bene…per voi” disse Orazio. “Il più è fatto. Le altre due sono facili.”
“Sono
pronto” disse Ciro, con aria vittoriosa e insieme timorosa.
“Bisogno
sapè la storia antica, ma nun se pò dimenticà quella de oggi. Ora mi devi dì chi
è er sindaco de la nostra grande Roma. Me basta il cognome, te vojo dà ‘na
mano.”
Ciro
era un po’ scarso in tutto, e la politica non era certo il suo forte. Partì il
tempo: aveva un minuto per rispondere. Più pensava, più gli veniva da dire
Rutelli, ma sapeva che il belloccio non era più sindaco da tempo. Come gli
venne alla mente Gualtieri resta ancora un mistero. Sparò e ancora una volta
azzeccò.
Orazio
non mutò la serenità del volto, ma in cuor suo fece quattro conti: erano in
nove, avevano mangiato con una certa abbondanza, diciamo almeno una trentina di
euro a testa, tre per nove ventisette, duecentosettanta euro….insomma, non
poco. Pensò di cambiare l’ultima domanda ma volle mantenere la tradizione del
locale, che prevedeva la prima domanda sempre uguale (quelle dei sette re) ma
le altre due variabili, però erano decise prima, non all’ultimo. E la domanda
scelta per quella sera era facile.
“Dunque,
signori, anzi, signore, visto che gli altri non sentono e non vedono. T’è
rimasta l’ultima domanda. Mò tu me devi dì er nome di quel pappagalluccio verde
de merda che cià ‘na voce che te spacca li timpani e li cojoni. Via col tempo!”
Ciro
sorrise: “Questa la so, anche perché ha lasciato l’impronta sul cappello
magiaro, regalo di mia figlia.”
“Guarda
che er tempo core!”
“Hai
ragione…Parrucchetto!”
Il
volto di Orazio divenne radioso: “E qui casca l’asino, senza offesa
naturalmente! Parrocchetto, parrocchetto. Vedi la vita? Basta sconfonne ‘na o
con ‘na u e sta vitaccia te frega.”
Velocemente,
la bella ragazza liberò gli avventori dall’impiccio delle bende e delle cuffie.
Gli amici capirono che nemmeno Ciro ce l’aveva fatta.
“Però
la vita nun te lassa a bocca secca. Camì, portace la bottiglietta che sai!”
Camilla
(la bella figliola) tornò con una bottiglia di amaro Nerone.
“Questa
ve la offre la casa, per non farve stà con l’amaro in bocca. Bevete alla salute
vostra” e Orazio se ne andò traballando su gambe non proprio atletiche,
pensando che per un altro mese la cassa era salva.