Mai paura
di Simone Mambrini
Dicembre. 7.
S. Ambrogio, sì, ma
per gli studenti che non vivono a Milano la vigilia dell'Immacolata, uno di
quei giorni che quando guardi il calendario e scopri che è domenica ci resti male.
Il pomeriggio di S.
Ambrogio, comunque vada, si inizia a respirare aria di festa, se non altro
perché si può rimandare lo studio (o una parte di esso) all'indomani. Ma c'era,
tanto tempo fa ormai, chi aveva un appuntamento fisso, un impegno.
Michele, terza media in corso di svolgimento, la testa piena di domande, saliva
sull'autobus nel primo pomeriggio e ripercorreva in senso inverso la strada già
fatta per tornare da scuola. Ma non era diretto lì; la sua meta era una strada
del centro, così differente da quella che portava al suo quartiere campagnolo.
Una via lastricata elegantemente, due file ininterrotte di palazzi antichi, un
portone dove entrare, un cortile quadrato. La scala, larga e con i gradini resi
scivolosi dai passi di un secolo, da percorrere fino al secondo piano, dove sui
ballatoi si affacciavano le case di ringhiera.
Come facessero, suo
padre e gli amici, a portare Carla fin lassù senza correre il rischio di cadere
rovinosamente, era un mistero. Si entrava direttamente in cucina, dalla quale
si poteva passare in camera da letto o in sala. Un locale arredato con
semplicità, una vetrinetta nell'angolo i cui vetri vibravano se il passo di chi
vi entrava era pesante, a causa della soletta, antica come il palazzo.
Tavolo, sedie,
fornelli, lavandino. E Carla seduta. Sempre. Da sempre, perché costretta in
quella posa dalla malattia, che le consentiva scarsi movimenti volontari
limitati alla testa. Il compito di Michele, ogni anno, era quello di scrivere
per lei i biglietti di auguri natalizi: alcuni di loro si riducevano alle poche
necessarie righe, ma altri erano vere e proprie lettere, e mettevano alla prova
la sua scarsa propensione alla scrittura, che avrebbe poi fatto precipitare la
qualità della sua grafia.
Mentre camminava
verso la sua meta il ragazzo pensava a come si stava svolgendo la sua vita, e
non ne era per niente soddisfatto. Si sentiva compresso, tra la necessità di
essere sempre all'altezza di quello che
gli altri si aspettavano da lui e i suoi
desideri, che sembrava sempre non poter realizzare, soprattutto perché il suo
senso di responsabilità e la sua timidezza lo portavano spesso a non osare, non
chiedere, non provare a far valere le sue ragioni, tanto si aspettava sempre di
non poter ottenere nulla.
Come quando non
aveva insistito per seguire il suo professore di educazione fisica, che lo
aveva portato in una squadra decisamente più seria di quel gruppetto che si
allenava nella palestra vicino casa, e non avrebbe mai giocato nemmeno una
partita, concludendo miseramente la sua esistenza solo un anno dopo. Ma i suoi
avevano paura di firmare un cartellino, e a nulla erano valsi i tentativi del
suo professore per convincerli, così in breve si era trovato senza il suo sport
preferito, e chissà se un giorno avrebbe potuto ricominciare, persa
quell'occasione.
Oppure ogni volta
che pensava di dire alla tal ragazzina che...ecco neanche riusciva a pensare
bene le parole che le voleva dire, accidenti...
Era un periodo
difficile insomma, e si sentiva prigioniero, oltre misura, dei propri limiti.
Ancora immerso in
quella sensazione si ritrovò davanti al portone del palazzo, e ne varcò la
porta, prendendo la via per le note scale. In cucina c'era Carla con la sua
mamma; una donna minuta ma con una forza d'animo straordinaria, unita a quella
fisica, insospettabile. Carta, penna, buste, tutto pronto: francobolli
acquistati nella tabaccheria accanto al portone.
Ciò che lo colpiva,
in Carla, è che nonostante la sua disabilità, il suo bisogno di tutto, avesse
sempre un aspetto sereno, sorridente, felice. Circondata da cure ed affetto,
aveva radunato intorno a sé tante persone, attratte naturalmente dalla sua
persona. Nessuno del gruppo lo faceva per pura filantropia, era proprio per
qualcosa che, al momento, gli sfuggiva. In particolare, l'atteggiamento di suo
padre con lei aveva qualcosa di unico: rustico, pratico, volto al bene. Molto
simile, a ben vedere, a quello che aveva con lui. E infatti Carla lo chiamava
papà, pur avendo almeno venti anni in più.
Michele stesso sapeva che non sarebbe venuto
al mondo, se i suoi genitori non si fossero incontrati: ma si erano incontrati
lì, nel gruppo. In ultima analisi, non sarebbe venuto al mondo se Carla non
fosse stata così. E ne era impressionato; quando era in un periodo così
negativo arrivava a domandarsene anche il perché, e se fosse veramente una cosa
così buona...
“Cos'hai, Michele?
Oggi non hai la faccia bella...”, gli chiese, in una pausa della dettatura.
“Niente, scusa,
pensieri che mi hanno preso sull'autobus, mentre venivo qui. Nulla di
importante”.
“Non credo. Se non
fossero cose importanti non causerebbero quel viso. Alla tua età comunque
pensare, domandarsi le cose, fa bene. Poi, però, bisogna anche agire. E agire
bene. Per esempio, ciò che fai oggi si chiama buona azione, ed è così non
perché devi essere buono e bravo, ma perché chi ci guadagna dal farla sei tu.”
“Beh, visto come
scrivo male la buona azione la fanno i destinatari esercitando la pazienza
quando leggono!”
La donna si mise a
ridere di gusto. Le piaceva lo spirito del ragazzo, e sapeva che questo
apprezzamento avrebbe cambiato il suo umore. Proseguì a dettare una delle
lettere più consistenti: “...la novità di Gesù che nasce ci porta la gioia
della vita che non finisce, la fine della paura della morte, che spesso non è
la peggiore delle paure.”
A questo punto, il
ragazzo le fece una domanda: “Perché, cosa c'è di peggio della paura di
morire?”
“Aver paura di
vivere, ragazzo mio. In qualunque condizione ti trovi, aver paura di vivere è
la cosa più sbagliata che puoi fare.”
E più tardi,
sull'autobus che lo riportava verso casa, pensò che era vero: ci aveva
guadagnato anche stavolta.