sabato 18 marzo 2017

Ines & Mario story - 25


Nel 1944 per mio padre le cose presero una piega poco lieta: cominciarono a chiamare quelli del ’26, diciottenni che dovevano partire per la Germania, impiegati nelle fabbriche belliche. Ma la convinzione era che la guerra fosse alla fine, che quindi fosse assurdo coinvolgere anche questi giovani. Così a Sant’Ambrogio si formò un gruppo di persone (il parroco don Barnaba Stucchi, il medico Lazzati, Cunietti ed altri notabili del paese) con l’intento di procurare documenti falsi, incarichi fittizi in Marina (la Marina non era chiamata ad andare in Germania) per salvare i giovani santambrogini. Nel frattempo, però, in attesa delle carte, questi diciottenni avrebbe fatto bene a scappare, a nascondersi. Così mio padre finì a Bienate, vicino a Busto Arsizio, dove risiedevano alcuni parenti. Già li aveva conosciuti da ragazzo, in gita a Sacconago. Il Mario ricorda che era estate (molto probabilmente l’estate del 1944), che il grano era alto e che lui giocava con una ragazza, Pina, che sarebbe diventata suora (foto). Dopo un paio di mesi la sorella Maria andò a riprendersi il fratello, munita dei documenti. A piedi da Bienate alla stazione di Busto Arsizio, e poi sul treno ecco subito un controllo: ma il Mario era in regola. Così il treno si fermò a Varese e non oltre confine. Riprese dunque a lavorare al caffè Garibaldi. Nel frattempo i fratelli Francesco e Giuseppe erano scappati dopo l’8 settembre, ma la sorte li spingeva ad andare in Svizzera, per evitare guai peggiori. Così mio padre ricorda quella notte, quando i due fratelli, passando per i boschi, giunsero al Gaggiolo e lui in bici, con il camice bianco del lavoro, si assicurò che avessero passato il confine, soprattutto per rincuorare i genitori. E poi ricorda quando, di tanto in tanto, si recava di notte, sempre in bici con la cugina Ida, presso una famiglia che abitava vicino alla frontiera. Lì venivano recapitate le lettere che non si potevano spedire dall’Italia, lettere che venivano portate in Svizzera e quindi spedite nel paese neutrale. Buio, freddo, paura: ma per fortuna arrivò il 25 aprile del ‘45.
Ecco come lo ricorda mio padre:
“Ricordo un clima di euforia e di confusione, e anche di sospetto. Il tempo della grande vendetta. La gente scendeva dai monti, gli internati ini Svizzera sarebbero arrivati poco alla volta, mesi dopo, come i miei fratelli Francesco e Giuseppe.
Alcune donne vennero prese e portate in piazza Milite Ignoto, a Sant’Ambrogio. Dicevano che erano state coi fascisti. Vennero rapate a zero.
Sempre in quella piazza il partigiano Augusto Bianchi, morto poi giovane di un tumore, si faceva vedere con le armi in mano e un giorno cominciò a sparare dalla piazza verso le ville. Uccise senza volerlo una bimba, figlia di sfollati.
Ricordo che il 21 aprile un ragazzo discolo di Sant’Ambrogio, un monello diventato partigiano, venne ucciso in una imboscata vicino alla Settima Cappella: lì c’era una villa e lì si trovavano i partigiani.
Ricordo poi i morti fascisti, uccisi nella zona dell’Ippodromo. Si era sparsa la voce di questa esecuzione, la gente si muoveva in massa, fiumi di persone che volevano assistere alla scena. Anch’io andai, avevo 19 anni, vivevo tutto come un’avventura. Ricordo il podestà, un vecchietto arrivato forse il giorno prima da Milano: lo vedo disteso a terra, con gli occhiali rotti e un pezzo di pane in tasca. Provo ancora oggi una grande pena per lui.”

25-continua







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