mercoledì 30 dicembre 2020

Dita nei capelli

 


Arrampicandosi sui comodi appigli delle rughe della fronte, le mie dita s'inoltrano fra i capelli, immaginandosi lussureggianti praterie. L'incontro con sterpaglia e radure è il segno che un altro anno è passato...e il nuovo non porterà certo un abbondante raccolto...conviene seminare altro...

lunedì 28 dicembre 2020

Due vite


                                                                                        gennaio 2020    (foto carlo zanzi)


"Abbiamo due vite, e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne abbiamo una sola"

                                                Màrio De Andrade

Alle 9 quindici centimetri



 


Lunedì 28 dicembre 2020: alle 9 già quindici centimetri

domenica 27 dicembre 2020

Capriole nella neve

 

                                                                                      ph carlozanzi

Dedico questo mio raccontino a tutti gli amanti della neve, ed in particolare al mio amico Giuseppe Gazzotti detto Pippo, il primo a Varese a sentire il profumo della neve, a farsi venire gli occhi lucidi...


Capriole nella neve

di carlozanzi


Incontrò un suo coetaneo. Da lì partì l’idea della preghiera e tutto il resto. 

Era il ventidue febbraio del duemilatredici, un caldo fuori stagione, venti gradi e le prime, temerarie cavolaie a regalare zigzaganti giallotenui ai giardini tardoinvernali.

“Chi si vede.”

“Eccolo qua…come te la passi?” disse lui.

“Ma lo senti che caldo?” e una scrollata di capo. “Oimè…”

“Oimè?”

“Siamo in inverno. Ma le belle nevicate di una volta? Te le ricordi?”

“Certo, ma…”

“Neve su neve” e fece il segno con la mano, fermandosi all’altezza dell’ombelico.

“Bè, non esageriamo…”

“Vedo che perdi la memoria. Battaglie a palle di neve, scuole chiuse…le stagioni erano stagioni, quattro stagioni belle nette, definite…e quelle nevicate!” e rifece il gesto con l’altra mano, arrivando sino ai capezzoli.

Si salutarono. A lui rimase una diffusa amarezza, che lo condusse nella vicina chiesa parrocchiale. Si inginocchiò. Pregò:

“Signore che governi gli elementi, Dio della natura e delle nevicate di una volta, ti prego. Non lo dico per la neve, che pure amo, e lo sai, lo dico per tutti i cinquantenni che sono intossicati dalla nostalgia del tempo che fu. Non hanno sessant’anni e campano di ricordi. Si precludono il futuro. Stanno sprecando ciò che resta loro da vivere. Questo non lo sopporto. Signore, se ci sei, manda una bella nevicata di una volta. Avrei una prova inconfutabile del tuo esistere – per me sarebbe essenziale - e potrei raccontare ai miei coetanei che il futuro può essere promettente. Mi dirai –Ma fuori ci sono venti gradi e le magnolie hanno fretta, pretendi un po’ troppo- So che lo puoi fare, mio Dio. E così sia.”

Uno scarabocchio di segno di croce e uscì nell’abbaglio di un ventidue febbraio certamente estivo.

Attese. Già la sera si rannuvolò. Brusco cala delle temperature il giorno dopo, ventitré febbraio, con cielo sbarrato da una compatta controsoffittatura grigiastra. La sera, dopo il tramonto, i primi fiocchi.

La notte non dormì, meglio, dormì male, si alzò a più riprese a vigilare, scrutando fra le fenditure della tapparella. Nella luce del lampione trovava conferma del suo sogno, i fiocchi scintillavano, si rincorrevano, festeggiavano il loro ritorno. Nevicò a larghe falde, ininterrottamente, il ventiquattro e il venticinque febbraio, sino alle sedici e trenta. Ottanta centimetri ne nevicarono dal cielo, di quella neve bella, candida e leggera, che s’aggrappa anche al più esile filamento, che pittura di biancolatte ogni sporgenza, stucca ogni fessura, gelida farina setacciata dall’immenso setaccio mosso dalle mani di quel Dio che l’aveva accontentato.

Lo videro l’ultima volta il venticinque febbraio, verso le diciassette, andare incontro al tramonto in un pubblico parco cittadino, saltellando nella neve intonsa, talvolta rotolando, rialzandosi, spolverandosi via la fiocca, e poi di nuovo la danza della festosa allegria per una neve di quelle di una volta. Chi lo conosceva bene disse che probabilmente aveva fatto una scoperta importante, non era sufficiente la nevicata a giustificare tanta euforia. Forse, finalmente, aveva incontrato Dio.

 

Calicantus


 

Calicantus

di carlozanzi

 

Giaculatòri da pass

sùra la gropa dul mött

d’ra Madòna dul Munt.

 

Fregüj da fiòca

e pass cüsì insema

cuntra ‘l ciel da calcìna.

 

In dul frècc, nissün:

frignà da scurbàtt,

buià da can

e la fiòca, tic toc,

sùra föj secch e ramm scür.

 

La santèla d’Urùnc,

sentée da giazz

a stücà i crepp,

rüg prufùnd d’ra rizzàva.

 

Rampèga la strava,

‘na capèla drèe l’altra,

rusàri mes’cià cunt ul bufà

sübit vapùur.

 

Remigà d’uraziùn

e ‘n calicantus:

prufümm, dumà saür,

vena da föögh nel cöör giazà,

sàbat da primavera,

Natàl da lüüs.

 

 


 

 

 

Calicantus

 

Giaculatorie di passi

sopra la groppa della collina

della Madonna del Monte.

 

Briciole di neve

e passi cuciti insieme

contro il cielo di calcina.

 

Nel freddo, nessuno:

frignare di corvi,

abbaiare di cani

e la neve, tic toc,

sopra foglie secche e rami scuri.

 

La cappelletta di Oronco,

sentiero di ghiaccio

a stuccare le crepe,

rughe profonde della rizzada.

 

Arrampica la strada,

una cappella dietro l’altra,

rosario mischiato con il soffiare

subito vapore.

 

Borbottare di orazioni

e un calicantus:

profumo, solo sapore,

vena di fuoco nel cuore ghiacciato,

sabato di primavera,

Natale di luce.

 

 


La musica enigmatica di Emi Valesi


 
                                                                   ph valentina zanzi


Gli amanti di Bob Dylan e di Paolo Conte, i cultori di Edoardo Bennato, Francesco De Gregori, Pierangelo Bertoli, Enzo Jannacci e, per stare ai moderni, Brunori Sas, certamente entreranno in sintonia con un cantautore emergente, sebbene non più giovanissimo. Emi Valesi, castelleonese, viaggia infatti fra i quaranta e i cinquanta, al suo attivo ha tanta musica ma pochi concerti, esubero di passione e una voce convincente ma nessun cd. Meglio, nessun disco prima di questa chicca, resa possibile dall’insistenza di chi crede in lui, soprattutto Umberto Bellodi, cuore pulsante dell’associazione di Castelleone, Alice nella Città. Qui, da Alice, Emi Valesi ha tenuto un concerto il 23 novembre 2019, il live è diventato finalmente un disco, 12 canzoni che, come già scritto, hanno influenze riconoscibili, ma non manca l’originalità. Chitarrista, voce forte, personalità ‘enigmatica’ (così viene definita sulla pagina facebook di Valesi, unico luogo dove poter avere qualche notizia su di lui), Emi attende quindi il giudizio di una platea più vasta. Tutti i testi e le musiche del cd ‘Emi Valesi, live Alice nella Città’ sono del quarantaseienne lombardo, un po’ serio un po’ ironico, un po’ ‘astratto’ un po’ attento alla realtà e alle sue magagne (il brano A Ste…è dedicato a Stefano Cucchi). Ottima la qualità del sound. Insieme a Valesi (voce e chitarra acustica) abbiamo Umberto Bellodi (chitarra elettrica e lap steel), Manuel Landi (batteria), Marco Maltempi (chitarra acustica) e Mauro Pamiro (basso elettrico). Registrazione di Andrea Grandi, preproduzione di Umberto Bellodi, mixaggio e mastering di Mattia Manzoni, Registrato dal vivo con il supporto tecnico di Andrea Grandi, Angelo Bonizzi, Eldar Erinaldi Stringhi. Grafica e foto di Valentina Zanzi.    

 

 


venerdì 25 dicembre 2020

Natale in maschera


'Il ballo in maschera finisce qui...' cantava Caterina Caselli...già, quando finirà questo ballo in maschera? Chi può dirlo? Una cosa si può scrivere: what a balls!

Però vediamo il positivo: chi ha un naso importante come il mio, con la maschera quasi ci guadagna. 

giovedì 24 dicembre 2020

Presepe d'attualità


 Nel nostro presepe simil napoletano, che ogni anno si rinnova seguendo l'attualità, non mascherine ma clavicole rotte.

Auguri, Paolo


 Felice compleanno al mio amico (e grande amico di Mock) Paolo.

Dietro il vetro

 

                                                                                               ph valentina zanzi


Gli anziani dietro i vetri delle RSA hanno un compito, probabilmente l'ultimo: farsi vedere felici. I loro figli hanno il diritto di trascorrere un lieto Natale.

Lo sappiamo che i vecchi non possono essere felici, men che meno se alloggiano in una RSA. La vita è una parabola e la felicità -se esiste- siede a cavalcioni sopra la gobba.

Anche i figli fingono che i loro anziani siano realmente felici, ma nel gioco delle finzioni la qualità dei sorrisi ci smaschera. 

mercoledì 23 dicembre 2020

Notte di Natale


 

Notte di Natale

di carlozanzi

 

Entro nella pancia della notte di Natale con il malinconico piacere del vittimismo. Sono da poco passate le ventitré del ventiquattro dicembre. Ho ultimato di consegnare gli ultimi pacchetti: tortellini, ravioli, pasta al forno, cannelloni. Il Ciao verdemarcio è in garage. Ho addosso il profumo nauseante del Pastificio Bolognese di piazza della Repubblica. Ho salutato il maestro, il Peppino, la Luciana e quel tipo alto e secco, che tiene i conti di quanto sto al cesso e se sgarro mi dice: “La merda si fa quando è matura.”

Cammino nella notte verso casa. Taglio in diagonale piazza Repubblica, alla mia sinistra il mercato vecchio, i negozietti, il bar Firenze. Fa freddo. Mi fascio nel cappotto, mi stringo addosso il suo calore, ora vorrei piangere. E così il vittimismo corre col mio giovane sangue. Credo c’entri il fatto che all’inizio il Natale è magia, è la festa più desiderabile, è il miracolo possibile e poi un giorno si scopre che il Bambin Gesù è solo tuo padre e tua madre. Si rimane male. Ci si sente vittime di un tradimento. Si cresce, certo, si dimentica e si scoprono altre gioie ma la ferita rimane. Per questo cammino nella santa notte ma non sono felice. Un po’ di zucchero in verità lo gusto perché mi hanno tradito, la colpa è loro, sono innocente, me l’hanno fatta, è giusto che mi stringa nel cappotto e nella mia malinconia, che mi fa star bene.

Cammino lento, so che ad attendermi a casa non ci sarà nessun Re dell’Universo che reca doni, in fondo sono triste anche perché ho dovuto lavorare (io, giovane studente delle medie) sino al colmo della notte per guadagnare qualche soldo, indispensabile per regali alla mia portata. Mi compro ciò che voglio però non è giusto, sono ancora uno studente, fare lo studente lavoratore pesa, soprattutto la notte di Natale; si vorrebbe precipitare nel magico sonno che non dorme e vegli sino all’alba, quando ci daranno il permesso di alzarci e di continuare a sognare: che si può essere felici.

Cammino verso casa, nella notte di Natale. Non c’è traffico, la Messa della mezzanotte è ancora lontana, molti siedono a tavola per il cenone della vigilia, a casa niente cena speciale, i miei staranno già dormendo, o forse li sorprenderò nel goffo tentativo di riproporre un segreto ormai svelato.  

Ma alla fine che voglio? Magari non regali ma un abbraccio, due abbracci e tanti baci, mamma e papà che mi accolgono, si complimentano “Sei un ometto!”, mi spianano la rivoltina, mi baciano sulla fronte. O forse non mi sta bene nemmeno così, perché non potrei più cuocere a fuoco lento in questo senso di dolce abbandono nella commiserazione.

Cammino nella complicazione dell’esistere aumentando il passo, fa freddo, vorrei scaldarmi, la mia abitazione non arriva mai, ora desidero solo dormire. Un mendicante cammina verso un vagone alla stazione delle Ferrovie Nord Milano, lì passerà la notte di Natale. Non mi fa pena. Mi fa paura. Aumento la frequenza della camminata. Corro. Il mio appartamento modesto ma riscaldato mi accoglierà. E forse, domattina, al mio risveglio dimenticherò di essere a metà strada, né bambino né uomo. E i miei diranno: “Alzati, piccolo, Gesù Bambino non si è scordato di te.”  

Sinceri pensieri natalizi

 


La recente morte di don Fabio Baroncini mi ha fatto riflettere. Molti hanno riconosciuto il suo carisma, la sua abilità oratoria, il suo parlare affascinante, coinvolgente. La sua fede indubitabile. E’ il fascino di chi testimonia una certezza, di credere fortemente in un’idea, capace di dirigere tutta una vita. Anche se non capisci bene il suo ragionamento, senti che quella certezza ti rapisce. Vorresti essere come lui.

Credo che la maggior parte delle persone viva invece il mio vissuto: il dubbio sistematico. Credo in Cristo? Sì, magari..forse. Chi può dire che il Dio Padre di Cristo sia davvero il vero Dio? E gli altri credenti siano figli di un dio minore? La Chiesa è davvero una compagnia benedetta e guidata da un Padre superiore o è una compagnia semplicemente e solamente umana, entro la quale si sta bene e ci si sente protetti, al pari di ogni altra umana aggregazione, che incolla gli adepti con un’idea, un progetto comune?

E allora, se un ideale (religioso, politico…) non guida e determina ogni tua azione, non resta che l’indecisione, il possibilismo, il pessimismo circa le speranze ultraterrene o le promesse di una nuova era, di una società perfetta. E allora si pensa che la morte cancellerà tutto, quindi conviene darsi da fare e raccogliere il piacere che la vita offre. E più la morte si avvicina, più questo desiderio si fa urgente.

Si tiene accesa la fiammella di una speranza di vita eterna (e perché rinunciarvi, chi può garantire che non sia possibile?) ma è, appunto, una fiammella, che non ti accende, non ti brucia. E’ solo una possibilità, insieme ad altre.

Ebbene, io rivendico la radicalità della mediocrità. Non perché sia lo stato d’animo dei più, qui maggioranza e minoranza non c’entrano, non siamo in democrazia. Mi pare una posizione più autenticamente umana. L’uomo, fragile, limitato, impaurito, stupito di fronte al mistero dell’universo, allo strapotere della natura, è più incline alle domande senza risposte che alla ‘pretesa’ di risposte esaustive.

L’uomo cerca risposte, è naturale e bello, sano e desiderabile, ma ottiene solo parzialità, un breve bagliore, qualche appunto e non il libro della verità. A meno di convincersi che valga la pena accettare di rischiare per una Verità assoluta pur di non vagare nell’indeterminatezza, posizione forse comoda ma soprattutto scomoda. E angosciante. Eppure inevitabile.  

Prendiamo Madre Teresa di Calcutta. Perché è tanto amata dalla gente? Perché era radicalmente cristiana? Aveva forti dubbi di fede, periodi di silenzio di Dio la piccola suora della carità. E’ presa a modello perché ha portato ai massimi livelli un ideale nobile, che i più ritengono umanamente desiderabile: l’amore verso i poveri, i sofferenti, gli emarginati, i rifiutati dalla società. Infatti Madre Teresa non è ammirata solo dai cristiani. Ma se la santa degli ultimi fosse andata in giro a dire che bisogna credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, che quello è il solo vero Dio...se l’avessimo vista in ginocchio pregare tutto il giorno, senza badare al povero che tendeva la mano, avremmo forse la stessa ammirazione? Credo proprio di no. Quante suore di clausura danno la vita per lo Sposo celeste, e non solo non sono riconosciute sante, ma per taluni sono persino delle perditempo, che hanno operato una scelta esistenziale di comodo.

Quindi…la mediocrità radicale di cui parlo non è quella di chi pensa egoisticamente solo a sé e al proprio piacere, ma di chi di fronte al mistero di Dio si trova ‘impossibilitato’ a scegliere, lo vorrebbe, vorrebbe poter dire ok ci sto sei TU quello giusto ma onestamente, per rispetto di ciò che sente nel profondo, della verità personale che dice la sua, non può farlo. E questa indecisione non è un di meno, una mancanza, un limite, un peccato, ma è il prezzo da pagare alla nostra umanità deperibile, finita.

Si dirà: “Bei pensieri natalizi. Dov’è il dono del Natale?”

Ogni anno guardo il mio presepe, prego davanti al presepe, chiedo più luce e certezze, ma non pretendo un paradiso che, forse (e dico forse) un giorno (spero ancora lontano, perché amo la concreta certezza della vita) diventerà la mia nuova casa.

 

 

 

 

 

 


martedì 22 dicembre 2020

Villa Toeplitz

 


Bruno Belli, studioso varesino, ha da poco pubblicato una breve trattazione storica sui coniugi Toeplitz, sulla loro villa e sul parco, con attenzione anche alle suggestioni letterarie, musicali e pittoriche richieste dalla stessa Edvige. Abbiamo un libro di 74 pagine, comprendente l’approfondimento ed un’essenziale bibliografia più 12 fotografie, voluto dalla sezione varesina ‘Bertolè Viale’ dell’Associazione Mazziniana Italiana.

Il volume, in copie numerate, sarà dato in omaggio ai soci del sodalizio, ma può essere richiesto da chiunque, con un’offerta libera che ricoprirà in parte le spese di stampa e in parte resterà nelle casse della Sezione varesina per le nuove attività.

Per informazioni potete contattare il segretario Roberto Gervasini al seguente indirizzo mail: cirovar1949@libero.it


Don Fabio e Cesare 'il rosso'


                                                                                 ph carlo meazza



Nel bel libro di Carlo Meazza 'Varese, 50 modi di descrivere la città' pubblicato nel 2000, oltre all'intervista a don Fabio Baroncini (ne ho già parlato) abbiamo anche lo scritto di Cesare Revelli. Cesare 'il rosso', prof. di storia e filosofia del corso C (il mio corso, fu mio prof), uomo di sinistra ben noto in città, arrivò al liceo classico 'Cairoli' di Varese a metà anni Sessanta, insieme a don Fabio. I due sono spesso stati avvicinati, fedi diverse ma comparabile carisma. Ecco come Cesare Revelli ricorda don Fabio Baroncini: "...Si moltiplicavano i clubs degli studenti. In prima linea va ricordata Gioventù Studentesca (GS, successivamente CL, Comunione e Liberazione) guidata allora da un sacerdote singolare: don Fabio Baroncini. Alto, magro, digiuno di studi classici (era ragioniere), nutrito come autodidatta di filosofia irrazionalista, avversario del tomismo, nutrito di una fede che un tempo si sarebbe definita 'da carbonaro', era dotato di una parola carnosa estremamente efficace e suggestiva e godeva di un enorme carisma presso i giovani. Le sue prediche, prima a S.Giuseppe, successivamente all'oratorio di S.Vittore, erano dei pugni nello stomaco. Nulla avevano a che vedere con le ninna nanne che solitamente scendevano soporifere dai pulpiti. GS era una forza reale nel panorama studentesco..."  
 

Il racconto di Simone

 


Mai paura

di Simone Mambrini

 

Dicembre. 7.

S. Ambrogio, sì, ma per gli studenti che non vivono a Milano la vigilia dell'Immacolata, uno di quei giorni che quando guardi il calendario e scopri che è domenica ci resti male.

Il pomeriggio di S. Ambrogio, comunque vada, si inizia a respirare aria di festa, se non altro perché si può rimandare lo studio (o una parte di esso) all'indomani. Ma c'era, tanto tempo fa ormai, chi aveva un appuntamento fisso, un impegno.
Michele, terza media in corso di svolgimento, la testa piena di domande, saliva sull'autobus nel primo pomeriggio e ripercorreva in senso inverso la strada già fatta per tornare da scuola. Ma non era diretto lì; la sua meta era una strada del centro, così differente da quella che portava al suo quartiere campagnolo. Una via lastricata elegantemente, due file ininterrotte di palazzi antichi, un portone dove entrare, un cortile quadrato. La scala, larga e con i gradini resi scivolosi dai passi di un secolo, da percorrere fino al secondo piano, dove sui ballatoi si affacciavano le case di ringhiera.

Come facessero, suo padre e gli amici, a portare Carla fin lassù senza correre il rischio di cadere rovinosamente, era un mistero. Si entrava direttamente in cucina, dalla quale si poteva passare in camera da letto o in sala. Un locale arredato con semplicità, una vetrinetta nell'angolo i cui vetri vibravano se il passo di chi vi entrava era pesante, a causa della soletta, antica come il palazzo.

Tavolo, sedie, fornelli, lavandino. E Carla seduta. Sempre. Da sempre, perché costretta in quella posa dalla malattia, che le consentiva scarsi movimenti volontari limitati alla testa. Il compito di Michele, ogni anno, era quello di scrivere per lei i biglietti di auguri natalizi: alcuni di loro si riducevano alle poche necessarie righe, ma altri erano vere e proprie lettere, e mettevano alla prova la sua scarsa propensione alla scrittura, che avrebbe poi fatto precipitare la qualità della sua grafia.

Mentre camminava verso la sua meta il ragazzo pensava a come si stava svolgendo la sua vita, e non ne era per niente soddisfatto. Si sentiva compresso, tra la necessità di essere  sempre all'altezza di quello che gli altri si aspettavano da lui e  i suoi desideri, che sembrava sempre non poter realizzare, soprattutto perché il suo senso di responsabilità e la sua timidezza lo portavano spesso a non osare, non chiedere, non provare a far valere le sue ragioni, tanto si aspettava sempre di non poter ottenere nulla.

Come quando non aveva insistito per seguire il suo professore di educazione fisica, che lo aveva portato in una squadra decisamente più seria di quel gruppetto che si allenava nella palestra vicino casa, e non avrebbe mai giocato nemmeno una partita, concludendo miseramente la sua esistenza solo un anno dopo. Ma i suoi avevano paura di firmare un cartellino, e a nulla erano valsi i tentativi del suo professore per convincerli, così in breve si era trovato senza il suo sport preferito, e chissà se un giorno avrebbe potuto ricominciare, persa quell'occasione.

Oppure ogni volta che pensava di dire alla tal ragazzina che...ecco neanche riusciva a pensare bene le parole che le voleva dire, accidenti...

Era un periodo difficile insomma, e si sentiva prigioniero, oltre misura, dei propri limiti.

Ancora immerso in quella sensazione si ritrovò davanti al portone del palazzo, e ne varcò la porta, prendendo la via per le note scale. In cucina c'era Carla con la sua mamma; una donna minuta ma con una forza d'animo straordinaria, unita a quella fisica, insospettabile. Carta, penna, buste, tutto pronto: francobolli acquistati nella tabaccheria accanto al portone.

Ciò che lo colpiva, in Carla, è che nonostante la sua disabilità, il suo bisogno di tutto, avesse sempre un aspetto sereno, sorridente, felice. Circondata da cure ed affetto, aveva radunato intorno a sé tante persone, attratte naturalmente dalla sua persona. Nessuno del gruppo lo faceva per pura filantropia, era proprio per qualcosa che, al momento, gli sfuggiva. In particolare, l'atteggiamento di suo padre con lei aveva qualcosa di unico: rustico, pratico, volto al bene. Molto simile, a ben vedere, a quello che aveva con lui. E infatti Carla lo chiamava papà, pur avendo almeno venti anni in più.

 Michele stesso sapeva che non sarebbe venuto al mondo, se i suoi genitori non si fossero incontrati: ma si erano incontrati lì, nel gruppo. In ultima analisi, non sarebbe venuto al mondo se Carla non fosse stata così. E ne era impressionato; quando era in un periodo così negativo arrivava a domandarsene anche il perché, e se fosse veramente una cosa così buona...

“Cos'hai, Michele? Oggi non hai la faccia bella...”, gli chiese, in una pausa della dettatura.

“Niente, scusa, pensieri che mi hanno preso sull'autobus, mentre venivo qui. Nulla di importante”.

“Non credo. Se non fossero cose importanti non causerebbero quel viso. Alla tua età comunque pensare, domandarsi le cose, fa bene. Poi, però, bisogna anche agire. E agire bene. Per esempio, ciò che fai oggi si chiama buona azione, ed è così non perché devi essere buono e bravo, ma perché chi ci guadagna dal farla sei tu.”

“Beh, visto come scrivo male la buona azione la fanno i destinatari esercitando la pazienza quando leggono!”

La donna si mise a ridere di gusto. Le piaceva lo spirito del ragazzo, e sapeva che questo apprezzamento avrebbe cambiato il suo umore. Proseguì a dettare una delle lettere più consistenti: “...la novità di Gesù che nasce ci porta la gioia della vita che non finisce, la fine della paura della morte, che spesso non è la peggiore delle paure.”

A questo punto, il ragazzo le fece una domanda: “Perché, cosa c'è di peggio della paura di morire?”

“Aver paura di vivere, ragazzo mio. In qualunque condizione ti trovi, aver paura di vivere è la cosa più sbagliata che puoi fare.”

E più tardi, sull'autobus che lo riportava verso casa, pensò che era vero: ci aveva guadagnato anche stavolta.

 

 



domenica 20 dicembre 2020

E' morto don Fabio

                                                                                        ph carlo meazza



"Ho incontrato la realtà di Varese nel 1966 quando, appena diventato prete, mi fu dato l'incarico di seguire gli studenti delle superiori e gli universitari ed ebbi la nomina di professore di religione al liceo classico Cairoli..." Così inizia la testimonianza di don Fabio Baroncini, resa a Carlo Meazza e riportata nel libro 'Varese, 50 modi di descrivere la città', dal quale ho preso anche la bella foto di don Fabio, realizzata da Carlo Meazza. 

Don Fabio è morto. Credo avesse più o meno 80 anni. Per quelli della mia età, un po' più vecchi o un po' più giovani, don Fabio è stata certamente una figura che non si dimentica. Soprattutto per quelli che azzardavano a definirsi cristiani, come il sottoscritto. Lo ricordo in qualche supplenza che ci tenne al Cairoli: sapeva destare il tuo interesse. Ricordo un incontro in San Vittore, doveva venire don Giussani, non venne ed esordì lui: "Si equi deficiunt, trottant aselli..." In mancanza dei cavalli, trottano gli asini...e non fece rimpiangere don Gius. A metà degli anni Ottanta, quando don Angelo Morelli, guida della Comunità Shalom che frequentavo, venne nominato parroco a Cassano Magnago, don Fabio venne più volte da noi, e ci aiutò nel nostro cammino di giovani-adulti desiderosi di vivere l'esperienza ecclesiale con intensità e coerenza. Poi lasciò Varese e andò a Milano. Da allora non ci siamo più incontrati ma, pur non facendo parte di Comunione e Liberazione, lo ricordo come un uomo di fede significativo.

Cosi don Fabio terminava la sua testimonianza nel già citato libro di Meazza: "...Rivedendo questi venti anni di storia si può dire che abbiamo cercato di collaborare, almeno come tentativo, attraverso la fedeltà alla Chiesa e al carisma di un Movimento, a rendere più umana la realtà di Varese nella consapevolezza che, come dice Eliot: - La Chiesa deve sempre edificare, e sempre decadere, e deve essere sempre restaurata. - "
 

Auguri, Sveva


 Felice primo compleanno a mia nipotina Sveva.

sabato 19 dicembre 2020

Mascherine teatrali


 Della sezione del Calandàri 'L'arte, gli artisti, i libri' ho scelto l'articolo di Antonio Borgato, che presenta il Gruppo Teatro della Famiglia Bosina.



Il regime di chiusura, o lockdown per gli anglofili, determinato dalla esigenza di contenere il contagio dal virus non ha risparmiato chi ama praticare, frequentare il teatro.

Niente rappresentazioni, nemmeno all'aperto, cancellazione di date, rassegne, concorsi, ma anche, purtroppo, stop agli incontri delle compagnie, alle prove, normalmente una o più, a cadenza settimanale.

Chi pratica questa forma d'arte, anche chi lo fa da dilettante, sa quanto sono importanti l'interazione fisica tra gli interpreti, la gestualità, l'uso dello spazio e del materiale scenico.

Anche gli alleggerimenti nelle disposizioni governative e regionali, che hanno avuto luogo a partire da giugno, hanno prodotto solo un parziale miglioramento per chi pratica forme di intrattenimento come i musicisti e gli attori. Nel momento in cui scrivo queste parole, sebbene siano ammessi alcuni eventi pubblici, ci sono ancora precise limitazioni riguardanti la distanza fisica tra le persone e l'uso di mascherine, sia per quanto riguarda il pubblico, ma anche per gli artisti (più penalizzati in questo frangente rispetto, ad esempio, dei professionisti del pallone). Permangono inoltre seri dubbi, molta incertezza sull'auspicata ripresa a pieno regime delle attività nella stagione autunnale.

Anche la Compagnia teatrale della Famiglia Bosina ha inevitabilmente subito le conseguenze della pandemia. E pensare che il 2019 era stato l'anno del rilancio, dopo un periodo di inattività nelle rappresentazioni in pubblico, inattività determinata principalmente dalla difficoltà nel trovare adeguate alternative al repertorio di commedie dialettali del Bertini (milanese di nascita e varesotto d'adozione) che, purtroppo, richiedono un organico ben superiore alle forze ridotte della Compagnia, in mancanza di rincalzi dopo alcuni ritiri per motivi di lavoro o di età.

Alla fine fu scelta una commedia portata sulle scene molti anni fa dal Teatro Popolare della Svizzera Italiana: "I bosìi i gh'ha i gamb cürt" (il dialetto e l'ambientazione ticinese hanno reso necessario qualche "adeguamento" di natura bosina). Accolta nelle prime letture d'assieme con qualche remora, per il confronto con il repertorio precedente, la commedia è pian piano entrata nelle simpatie degli attori, e l'iniziale perplessità è stata fugata dal riscontro nel gradimento del pubblico che ha assistito agli spettacoli. La storia presenta infatti diverse situazioni comiche che derivano da un iniziale equivoco e dalla catena di bugie che i protagonisti sono via via costretti ad inanellare per coprire le rispettive tresche di carattere amoroso, finché il fragile castello inevitabilmente crolla, come insegna il vecchio adagio racchiuso nel titolo.

Dopo il debutto nel Nuovo Teatro di Cuasso al Monte, nell'ambito della rassegna diretta da Paolo Franzato, sono seguite repliche a Induno Olona, ospiti del "Portico degli Amici", S. Ambrogio Olona, Caldana, Teatro Santuccio di Varese (con il patrocinio della Famiglia Bosina) e, per finire, Velate (nel teatro che viene gentilmente messo a disposizione dalla Parrocchia per le prove settimanale della Compagnia), il sabato precedente il carnevale 2020, appena in tempo prima dei provvedimenti di chiusura dovuti al Covid-19.

Una vera disdetta, perché si avrebbe avuta la possibilità di fare altre repliche e, nel frattempo, si sarebbe potuta preparare una nuova commedia per continuare a divertirci e a divertire chi ci segue.

I mezzi messi a disposizione dalla tecnologia telematica sono stati utili per una lettura del nuovo testo, ma da qui alla messa a punto delle scene, alle cosiddette "filate" (prova di un atto o di tutta l'opera senza interruzioni) ce n'è tanta di strada da fare, come dicevo più sopra.

Non ci resta che augurarsi di poter riprendere al più presto. Questa pandemia ci ha dato la possibilità di riflettere su tanti valori della convivenza umana e tra questi scoprire quanto ci può mancare l'arte, il bello, il divertimento sano.

Tutto ciò sarà di sprone per ricominciare senza sprecare tempo e con maggiore determinazione per quanto ci è possibile. Ci manca il palcoscenico, ci manca il contatto col pubblico con il quale vogliamo continuare a condividere quello che a noi piace tanto.

 


venerdì 18 dicembre 2020

Giorgio sulla Saslong


 Oggi, sabato 19 dicembre 2020, è in programma, a porte chiuse, la discesa libera Saslong della Val Gardena. Scenario da favola, un mare di neve, speriamo nessun infortunio ai danni dei pazzi scatenati che affronteranno, fra l'altro, le rinomate gobbe del cammello, all'ombra del Sassolungo. Ho scelto come foto dell'evento questa, trovata su fb, che mi riporta all'Alpe di Siusi, alle dolomiti gardenesi e all'ex alunno Vidoletti Giorgio Ciancaleoni, uno dei più talentuosi alunni della mia scuola varesina, senz'altro per ciò che riguarda lo snowboard. E' stato per anni in nazionale, non so per quale motivo si è ritirato presto, forse a causa degli infortuni (gareggiava nell'half pipe), non so cosa faccia oggi. Ma ricordo bene la sua leggerezza sulla tavola (vinse le nazionali ai Giochi Sportivi Studenteschi), il suo sorriso scanzonato. Uno dei suoi prof. diceva che era un 'ragazzo cerino', uno che fa una gran fiamma e poi si spegne subito. Ma la fiamma del ricordo è ancora accesa.  

25 anni fa la 'Cronaca'


 

Il Calandari dra Famiglia Bosina ha una sezione intitolata 'Il territorio'. Di questo angolo di libro presento l'articolo di Federico Bianchessi Taccioli, che ricorda l'avventura del quotidiano varesino 'La Cronaca'.


Mancavano due giorni all’estate del 1996, la temperatura superò i 28 gradi e a Varese spuntò una primizia. In edicola. Un nuovo quotidiano. Nuovo non soltanto perché era il primo numero, ma nuovo sotto tutti i punti di vista. Formato tabloid, il primo in una città ancora abituata ai tradizionali lenzuoloni cartacei. Prima pagina stile vetrina, articoli brevi, grandi foto. Nessuna notizia nazionale, men che meno estera. Solo e soltanto cronache e inchieste sulla città. Prezzo 500 lire. Gli altri costavano 1500. Con 2000, invece del resto, potevi prendere La Cronaca (un’idea antica, questa, nientemeno che del 1885, quando a Firenze con 10 centesimi si potevano comperare un sigaro da 8 e il giornale da 2, ‘Il Resto al Sigaro’, idea subito ripresa a Bologna lo stesso anno dal neonato Resto del Carlino). “Era il panino senza il pane”, spiega Marco Dal Fior, direttore dal primo numero fino al dicembre dello stesso anno. Un ‘panino’ era un quotidiano nazionale nel quale era inserito uno sfoglio locale prodotto da una redazione staccata e relativamente autonoma, a volte con una testata propria. La Cronaca si presentava come la fetta di prosciutto. “Il ‘pane’ lo sceglieva il lettore”. L’idea nasceva dalla constatazione che la vendita di quotidiani nazionali nelle edicole varesine era mediamente più alta rispetto al giornale locale che in altre città. “A differenza di tutti gli altri ‘secondi giornali’ nati nel tempo a Varese, noi non ci proponevamo di sfidare la testata storica locale ma di offrire a chi sceglieva altro anche la possibilità di conoscere le notizie della città, in modo succinto, gradevole, con un minimo di spesa in più”. Ma perché poi accontentarsi: nella ‘Cronaca’ non si trovava soltanto ‘cronaca’ spicciola, ma inchieste, dibattiti, approfondimenti. L’idea, curiosamente, non era venuta né a un editore né a un giornalista, e nemmeno a un varesino, ma a un giovane luinese, Luca Sartorio. “Non lo conoscevo, mi chiamò un giorno e ci trovammo da Zamberletti. Era un tipo calmo, posato, il suo progetto mi convinse. Lui, in realtà, non aveva la minima idea di quanto costasse fare un quotidiano e le risorse erano davvero sottostimate. In appena una decina di giorni, eravamo già oltre i 3 milioni di lire e il problema esplose nel giro di poco tempo, portando all’arrivo di un nuovo editore, Donato Rita, imprenditore nel settore costruzioni e sanità”. Benché i soldi in cassa fossero pochi, la squadra giornalistica arruolata per l’impresa non era affatto da serie B. A cominciare dal direttore, s’intende. Varesino, come naturale, i primi passi nell’incubatrice di tanti giornalisti: Radio Varese, tra il 1977 e il 1979; poi all’Ordine di Como, redattore al ‘Giornale’ di Indro Montanelli, caposervizio a ‘Repubblica’, caporedattore alla ‘Voce’ montanelliana (e dopo la Cronaca, caporedattore al Corriere della Sera fino al 2010). E poi Mario Chiodetti, Francesca Mineo, Simone Marcer, Sara Magnoli, Andrea Confalonieri (che anni dopo avrebbe diretto La Provincia di Varese), Marco Chironi, Alessandra Mangiarotti. “Il decollo fu con il botto, tiratura sulle 8-10mila copie e ottime vendite per diverso tempo, poi, come succede, ci fu un calo. E decidemmo di rafforzare il gruppo”. Salirono quindi a bordo, nelle settimane successive, Nino Gorio, già brillante e colto cronista del ‘Giorno’ a fare da coordinatore-regista della squadra di cronaca, Saverio Cerè, ex della Notte, e chi scrive questo ricordo, chiamato da Dal Fior, incrociato negli anni di redattore al ‘Giornale’ e poi di caposervizio nella redazione romana della ‘Voce’, in quel momento all’Indipendente diretto da Daniele Vimercati. Tre milanesi (Gorio era nato a Soncino, ma Milano era anche la sua città), però già con radici a Varese. Arrivò anche un’ottima grafica, Franca Gazzola, anche lei proveniente dalla ‘Voce’. E senz’altro lo stile rivoluzionario della grafica del giornale ‘ribelle’ di Indro si riflette in quello della Cronaca, quotidiano minigonna in una realtà dove ancora imperava il tailleur. Al fascino visivo delle pagine contribuì uno dei migliori obiettivi sulla piazza, forse il migliore, Carlo Meazza. Insieme a una squadra di ottimi professionisti e giovani promettenti. Anche la location sembrava strizzare l’occhio alla città: la prima fu nel palazzo di via Dandolo 4, dove nel 1888 nacque la ‘Cronaca Prealpina’ di Giovanni Bagaini; poi, risultata stretta, ci fu il trasloco nel moderno edificio di piazza XX Settembre, con le vetrate affacciate su una delle arterie dello ‘struscio’ varesino. Sfogliare quel primo numero regala qualche sorpresa. A parte l’editoriale del direttore, ‘Una sfida. Ma con voi vinceremo’, domina la prima pagina la grande fotonotizia centrale, con la presidente del Fai Giulia Maria Mozzoni Crespi (è morta il 19 luglio scorso) e l’allora ministro per i Beni culturali Walter Veltroni che annunciano la donazione di Villa Panza al Fondo per l’Ambiente Italiano e un titolo – ‘Finalmente il Guggenheim’ – che racchiude anche non piccoli rimpianti. Sopra, titolo-mansarda tutto maiuscole, ‘Prove di secessione’, dedicato a un ‘viaggio nei dubbi del Carroccio prealpino dopo lo sfratto alla Prefettura’. Di taglio, il richiamo a una notevole intervista a Paolo Conte (si sarebbe esibito il 25 giugno al Sacro Monte: ricordiamo ancora la pioggia che si abbatté) che parlò di Piero Chiara. Lo sport lancia un referendum via fax, ‘Pozzecco sì, Pozzecco no’. La pagina 2 era tutta di servizio, con numeri, telefoni e indirizzi utili, le farmacie di turno, una breve recensione di un film, gli orari dei treni. La 3, titolone ‘E’ il Bobo che traccia il solco’ – riferito ovviamente a Maroni. Era l’epoca della guerra della Lega ai prefetti, poi accantonata quando lo stesso Bobo divenne il ministro dell’Interno del governo Berlusconi. “La Cronaca affiancava ogni giorno alle notizie di cronaca, sempre condensate agli elementi essenziali, approfondimenti e inchieste di respiro, anche a tutta pagina”. ‘Cosa diventerà Varese?’, rivolta a disegnare la città ‘del Duemila’, fu ad esempio l’inchiesta affidata al sottoscritto e sviluppata in più puntate, partendo dall’allora ormai prossima inaugurazione dell’Università dell’Insubria per poi verificare le prospettive economiche, sociali e culturali, con interviste al prevosto monsignor Pezzoni, al rettore Renzo Dionigi, al presidente degli industriali Lamberti e molti altri. E suona forse ancora attuale quel monito del pastore di San Vittore, su cosa servisse di più alla Varese del 2000: “Meno arredi, più fondamenta”. Un bel giornale, anche se il giudizio suona di parte, ma difficile da contestare. Cosa non funzionò, perché si arrivò così presto al capolinea (con un breve ed esile seguito sotto la modificata testata ‘Le Cronache’, diretta da Diego Landi)? “Il primo limite fu territoriale: avere escluso Busto Arsizio e Gallarate, limitandoci al capoluogo e al nord della provincia, privò il giornale delle realtà più dinamiche e produttive, permise di contenere i costi ma penalizzò moltissimo la diffusione e il radicamento del quotidiano. Sarebbero servite risorse maggiori da investire, ma non le avevamo. Secondo, la scommessa del secondo giornale, del panino senza pane appunto, non risultò vincente nella città. Chi comperava il quotidiano nazionale non era evidentemente abbastanza interessato alle notizie locali per affiancarne un altro, sia pure a sole 500 lire”. Eppure, la vitalità della ‘torpediniera’ era indiscussa: rompeva gli schemi, magari anche un po’ le scatole, ma certo non passava inosservata. I garbati morsi di ‘Vipera gentile’, la reporter segreta del gossip – Dal Fior oggi alza il velo sull’identità della Lady Veleno: “Era Nicoletta Romano, la regina della ‘crema’ varesina” – faceva correre in edicola i protagonisti degli eventi vip. E la concorrenza doveva lamentare, dalla politica all’economia, quasi ogni giorno il ‘buco’ di un proiettile. Ma il carburante cominciava a scarseggiare e qualche malumore serpeggiava. Un tentativo venne compiuto allora con un ‘panettiere’ illustre e potente, al quale venne proposta La Cronaca come nucleo di una nuova presenza locale, da affiancare alle numerose altre già controllate nel Paese: “Insieme all’editore, andammo a Roma dal principe Carlo Caracciolo, nella sede dell’Espresso. Ci ricevette con grande cortesia, ci ascoltò con attenzione, ma l’idea di aprire a Varese un altro giornale locale, mentre già meditava forse di sfoltire la galassia cresciuta attorno a Repubblica, non gli interessava”. Così, nonostante l’inserimento di L’Occasione – a base di inserzioni gratuite -, l’orizzonte della Cronaca si chiuse. Tra le ragioni, certamente, ci fu anche l’avvento delle notizie su internet. Nelle quali si rinnovavano alcune intuizioni dei giornali più innovativi di quello scorcio di secolo: notizie rapide, sintetiche, ampie immagini, servizi mirati, pratici, ma anche dibattiti, forum. “Senz’altro, l’erede vero della ‘Cronaca’ è stato prima ‘Varesenews’ e poi soprattutto ‘Varesenoi’, che ancora conserva, a un costo di produzione irrisorio rispetto alla carta stampata, la filosofia del gusto della cronaca intesa come racconto di una città, come storia e storie dei suoi protagonisti”.