Della sezione 'La storia e le storie' del Calandàri 2021 ho scelto il pezzo di Max Lodi, che ricorda il primo scudetto della grande Ignis.
Enrico Garbosi era
un uomo cortese, elegante nel modo d’atteggiarsi, affabile e però cauto a usare
le parole. Sapeva affidarsi a quelle pertinenti nel momento giusto. Quando
venne ad abitare con la famiglia in via Piave al numero 3, nel centro di
Varese, pochi sapevano ch’era il nuovo allenatore dell’Ignis Varese. Lo si
sarebbe detto un funzionario di banca oppure un professore di scuola o magari uno
statale di rango. Figura dal tono insieme mite e autorevole, spesso avvolta dal
fumo della sigaretta e da una nonchalance di tratto aristocratico. Poi,
rapida, circolò la voce: si trattava del tecnico chiamato a portare in alto la
pallacanestro, passione e orgoglio locale. Il commendator Giovanni Borghi,
patron del club, aveva deciso di vincere, affidando il compito al presidente
esecutivo Angelo Bettinelli. Chiesto in giro chi gli garantisse di trionfare,
Bettinelli ricevette il nome di Garbosi. A Varese aveva giocato molti anni
prima, partecipando dell’avventura che nel 1949 aveva condotto la squadra -allora
in maglia biancorossa- al secondo posto nel campionato di serie A. Con lui, fra
gli altri, Tracuzzi, Zorzi, Alesini, Gualco, Nesti, Forastieri. Poi quel
playmaker piccolo e furbo era emigrato, scegliendo il mestiere -o meglio: la
vocazione- d’allenatore. Quattro scudetti con la Comense femminile, Ct della
nazionale rosa, esperienza importante alla storica Reyer Venezia maschile. La
laguna, il suo mondo: vi era nato il 6 aprile 1916.
Al quinto piano
della casa di via Piave, scala A, viveva con la moglie e i figli Franco,
Nicoletta e Gianni. Più tardi sarebbe arrivato anche Fabrizio. Miriam aveva
giocato nella Comense e lì conosciuto il futuro marito. Donna entusiasta e
ironica, sapeva fare squadra come lui. Forse più di lui. Dava la carica anche a
chi aveva le batterie spente. Credo che Rico, così lo chiamavano tutti,
ritrovasse in famiglia le tante energie psichiche disperse in allenamenti e
partite per trasmettere ai giocatori il suo rivoluzionario verbo, che
privilegiava atletismo e semplicità tecnica. Nomi rimasti celebri negli annali che
ci stanno a cuore: Mario Andreo, Umberto Borghi, Guido Carlo Gatti, Giovanni
Gavagnin, Remo Maggetti, Paolo Magistrini, Vinicio Nesti, Renato Padovan,
Gabriele Vianello, Tonino Zorzi (foto).
Il figlio Franco
aveva la mia età, 10 anni. Frequentavamo la scuola Mazzini di via Como, un
casermone grigio fin quasi alla tetraggine. E insieme ci arrampicavamo, la
domenica, sulle spalliere svedesi attorno al campo di linoleum della Casa dello
Sport di viale 25 aprile per assistere alle partite della Ignis, che vestiva la
nuova divisa gialloblù. Stavamo lì appollaiati per ore, respirando fumo e
gridando ‘Forza Varese!’, salvo una tregua nell’intervallo tra il primo e il
secondo tempo, quando ci precipitavamo in campo a far quattro tiri nell’attesa
che le squadre rientrassero dagli spogliatoi. Fu una stagione memorabile: un
successo dopo l’altro. 21 vittorie su 22 incontri, avversari più forti il
Simmenthal Milano e la Virtus Bologna (proprio a Bologna l’unica sconfitta).
Soprattutto il Simmenthal di Pieri, Riminucci, Gamba e dello ieratico coach
Cesare Rubini. Un mito. Il match winner risultò spesso ‘Nane’ Vianello, ma nel sentiment
bosino stava specialmente Tonino Zorzi, che i ‘casbenatt’ -a cominciare dalla
famiglia Pedretti- avevano adottato al suo arrivo a Varese, quando
contemporaneamente giocava a pallacanestro e faceva il geometra.
Nella tarda
primavera del ’61 -sessant’anni fa- venne conquistato lo scudetto al canto
varesinizzato dei ‘Ragazzi del Pireo’ di Manos Hatzidakis, divenuto celebre
grazie alla voce di Melina Mercouri: “Forza Varéeese/che vinci lo scudéeetto/l’abbiamo
sempre déeetto/che sei uno squadròoon”. Oggi, 2021, celebriamo queste singolari,
fascinose, leggendarie nozze di diamante. Allora fu festa di pungenti emozioni in
una città che, sindaco Oldrini, si stava trasformando. Il suo ombelico, piazza
Monte Grappa, ospitava i celebri Caffè Socrate e Pini, il secondo méta
quotidiana di Garbosi, cui piaceva rilassarsi giocando a carte. In séguito
sarebbe divenuto la sede del Basket Club Ignis Varese, prima associazione
italiana del tifo cestistico organizzato, che ebbe a lungo il fotografo Camillo
Faoro come presidente.
Tutt’intorno, la
trasformazione urbanistica galoppava. Proprio in piazza Monte Grappa un
edificio di discutibile modernità sostituì l’antica casa Romanò, ospitando i
magazzini Standa; un ponte venne gettato tra le vie Milano e Morosini e si ricoprì
il trincerone delle Ferrovie Nord di fronte alla stazione delle Fs; nuove
palazzine sorsero tra piazza XX Settembre, via Vittorio Veneto e via Cavour; lo
stadio ‘Franco Ossola’ dispose finalmente d’una tribuna coperta in cemento
armato accanto a quelle in legno e tubolari. Impulso continuava ad avere il
settore turistico, sotto la spinta del presidente dell’Ept Manlio Raffo, con
rassegne cinematografiche, eventi d’arte e perfino l’organizzazione di voli in
elicottero dai Giardini estensi al Monte Tre croci. Nascevano edifici scolastici, reparti
d’avanguardia all’Ospedale di Circolo, decine di piccole e medie imprese
destinate a procurarci la nomea di terra dei danée. Il basket d’élite era
al tempo stesso la conseguenza di questo sviluppo e il suo innesco: echeggiava
la gradevole armonia della crescita locale, e si trasferiva fuori dei nostri
confini un’immagine territoriale vincente che di tal fatta non si sarebbe più ammirata.
Enrico Garbosi ci lasciò il 6 febbraio del ’73, nel pieno d’un nuovo miracolo
baskettaro, chiamato Valanga Gialla, e nel vuoto dello scomparso miracolo economico.
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