ph La Provincia di Varese
Dedico questo racconto a chi, almeno una volta in vita, ha ammesso di essere un pirla
Il
più pirla fra gli uomini
di carlozanzi
Quando
gli venne l’idea sentì caldo al cervello, una vampata sul viso e il cuore in
estasi. Poteva essere lì: dal trentesimo chilometro. Quello il punto.
Che
avesse intenzione di partecipare all’Expomarathon Varese era una scelta già
fatta, sebbene anni addietro avesse promesso a se stesso che non avrebbe mai
ritentato una maratona. Allora aveva quarant’anni e si poteva fare: prima la
maratona di Venezia, tre ore, quarantatré primi e dieci secondi, poi quella di
Roma, anno Duemila, maratona del Giubileo, tre ore, ventinove primi e trentadue
secondi. In seguito la malattia del running era passata, la virulenza da fatica
si era attenuata e si era rappacificato col mondo: basta gare. Quindici anni
dopo gli vanno a sbattere in faccia una maratona proprio nella sua Varese. Una
tentazione. Si era iscritto e anche moderatamente allenato. L’intento era di
arrivare al traguardo, nulla più: già molto per un sessantenne, arrivato a
quell’età né carne né pesce, né adulto né vecchio, già molto avanti, si direbbe
con un piede nella fossa ma l’altro ancora ben ancorato alla terraferma. Età di
tremarella. E ora questo pensiero distorto e vigliacco: sì, al trentesimo
chilometro.
Venne
il giorno, l’ora, il mese, una domenica di luglio con il cielo bianco
lattiginoso, afa già alle sei del mattino, pappataci, zanzare e gamberi rossi della Louisiana anche
loro col pettorale lungo la ciclabile del lago di Varese, terreno della corsa
di quarantadue chilometri e centonovantacinque metri.
Partì
che era già sudato, li lasciò sgambettare in avanti, quelli più giovani ma
anche quelli più vecchi, in fregola come i gobbini di quel lago marcio, bello
solo da lontano. Partenza e arrivo in località Schiranna, un percorso
assolutamente piatto, con toccata e fuga anche dalle parti del lago di
Comabbio. In principio dovette combattere contro il desiderio di aumentare il
passo, ma non fu troppo complicato stare buono, controllare la foga. Dalle
parti di Gavirate arrivò un inatteso dolore al ginocchio destro, che lo
costrinse a rallentare, a zoppicare, a temere problemi al menisco. Già a
Biandronno il dolore si era sciolto ma il respiro non funzionava. ‘Quest’afa mi
farà asfissiare’ pensò, raccogliendo un bicchierino in plastica contenente del
liquido arancione. Gli spugnaggi erano frequenti, necessari. Notò, con
soddisfazione, i primi ritiri. Passò anche un’ambulanza, ma a sirene spente. A
bordostrada applaudivano e incitavano gli spettatori di quella maratona
nostrana, senza tradizione, improvvista per dar sfogo ad alcuni quattrini del
vicino Expo meneghino, finanziamenti ottenuti con la promessa di una corsa ben
organizzata, che avrebbe propagandato la necessità di un’alimentazione
equilibrata, sostenibile, indispensabile per i successi sportivi. Lui fame non
ne aveva, piuttosto cenni di nausea: anche perché si stava avvicinando il
trentesimo chilometro, la linea di demarcazione da tutti temuta, l’inizio della
fatica vera, della lenta, inesorabile, malandrina vittoria della sofferenza e
della testardaggine. Ma lui, da lì, aveva in mente ben altro. Così partì, non
di scatto ma in allungo costante. Ormai ne era convinto. Perché attendere la
morte nel proprio letto? Costretti ad assistere, oltre che al proprio, tragico
destino di disfacimento, anche allo spettacolo dei parenti in piedi o seduti,
forse persino da consolare? E se gli fosse capitato in sorte di dover assistere
a quel falso cordoglio, a quella finta sofferenza da dipartita, che gli avrebbe
detto spudoratamente e infallibilmente: ‘Guarda, non sei stato capace nemmeno
di creare empatia. Non sono realmente tristi per la tua morte. Sono
imbarazzati, vorrebbero non dico fregarsi le mani e nemmeno ridere, ma sostare
nella loro comprensibile indifferenza. In fondo che hai fatto per meritarti le
loro lacrime? Il loro sincero dolore?’ Via via, darsela a gambe, correre sino a
far salire il cuore a duecento, anche di più, correre sino al traguardo senza
alcun controllo, precauzione, sfidando le leggi dell’età e della resistenza dei
tessuti, correre sfiorando i quattro al mille, addirittura i tre e trenta, così, per gli ultimi dodici
chilometri e spegnersi dopo il traguardo, non prima, morte da eroi.
Il
cuore rombava, cavalcava, la gola non aveva più saliva, la lingua era secca
come un peperoncino, i muscoli delle cosce duri come il marmo di Candoglia ma
lui non mollava. Aspettava solo il colpo fatale. Ma sì, anche prima del
traguardo, a quel punto cosa importava? Bastava ottenere lo scopo. Poi
cominciarono i sorpassi. Allibiti, i concorrenti vedevano sfrecciare il
sessantenne con un ritmo degno di coloro che erano partiti davanti, nella
categoria atleti professionisti. Più d’uno pensò che quel tale, con un fisico
così così, si fosse inserito nel gruppo poco prima, percorrendo da gasato gli
ultimi chilometri, un baro degli applausi, un invasato che s’accontentava di
costruirsi una realtà tutta sua. E invece lui aveva nelle gambe già oltre
trentacinque chilometri e ora svoltava a sinistra, dalle parti della rotonda di
Capolago, quella con l’Aermacchi MB 326 arancione nel mezzo, gloria
dell’aeronautica varesina.
Correva
e ansimava, paura, dubbi e quando la certezza della scelta si imponeva il ritmo
aumentava, i sorpassi si susseguivano, la meraviglia degli altri s’accentuava.
Quando transitò alla rotonda dei Ronchi una nuova idea: perché non uscire dal
gruppo? Svoltare a destra, passare la rotonda, prendere la salita dei Mondiali
di ciclismo, arrancare sul pendio rendendo più probabile il collasso?
L’infarto? Andarsene in solitudine, accasciato vicino ad un ciliegio o altra
pianta da frutta dei casbenàtt? Si
convinse, lasciò la ciclabile, prese la rotonda ma anziché tenere la destra
completò il giro e tornò fra i maratoneti sfiancati, rubizzi in viso,
claudicanti. Via, via, correre al massimo, sino alla fine: si vide paralizzato
su una carrozzina, reso inabile dalla vecchiaia, obbligato a farsi nettare il
culo da una mano che non fosse la sua, e così diede nuovo vigore alla corsa.
Ora
stava davvero male. Ma sarebbe stato possibile dar sfogo alla volontà, alla
tenacia sino al punto di crollare esausto? La mente l’avrebbe tradito,
obbligandolo a diminuire il ritmo? L’istinto di sopravvivenza lo avrebbe infine
convinto? Ma avvenne un fatto, al di là della mente e dell’istinto: un’immagine
inattesa, parole fresche, occhi luminosi, minute mani levate al cielo, labbra
aperte nel più convincente dei sorrisi. E ciò capitò dopo il cartello
dell’ultimo chilometro. A quel punto la
ciclabile svoltava a sinistra e correva verso il lago, tagliando nel mezzo un
vasto prato, quindi una curva a destra e puntava decisa verso la Schiranna.
Proprio sulla curva a destra notò una giovane donna che teneva in braccio una
bimba di pochi anni. La vista annebbiata rendeva tutto confuso, ma correndo
come un indemoniato arrivò subito al dunque.
“Bravo,
nonnino, bravo….nonno mio!”
La
figlia e la nipote di nemmeno due anni erano accorse al suo capezzale. Notando
l’entusiasmo di quella vita appena scartata si sentì il più pirla fra gli
uomini. Si fermò, prese fiato, accolse la bimba fra le braccia, la mise a terra
e camminando con lei si portò verso il traguardo. Lo superò, prese in braccio
la nipotina e la baciò.
Nessun commento:
Posta un commento