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ottobre 2015 – Salone Estense - “Il
giorno che tremò la notte”
Comincerei
dal fondo, dalla lettera Z di uno Zanzi che non è il nostro Carlo, ma
Francesco. Lo so che non si fa, che non è elegante, ma l’amicizia che ci lega
da anni credo mi consenta un appunto affettuoso tanto per non dare la brutta
impressione di essere qui per distribuire santini col nome di Carlo. So che a
lui non piacerebbe. Magari lo farà chi verrà dopo di noi quando sarà avviata la
sua causa di beatificazione… Ecco, allora: Francesco Zanzi non è “un tale”,
come scrivi tu nel delicatissimo racconto “L’erba di Redipuglia”, ma “il”
soldato semplice del 66° fanteria morto nella Grande Guerra e sepolto, insieme
ad altri 100mila –ciascuno con nome e cognome- nel più grande sacrario italiano.
Precisazione
di lana caprina? No, se vogliamo che la memoria sia un fatto vivo e a te la
memoria sta molto a cuore. Ancor più se non di Francesco Zanzi si parla, ma di
Marco, tuo fratello di sangue e, in senso lato, fratello di tanti fra noi che
gli hanno voluto bene e dal quale hanno ricevuto bene. Carlo gli dedica non
solo il volume, ma anche le ultime due pagine in un racconto che ha il sapore
del teatro pirandelliano, in cui il finale rimane sospeso e ciascuno può
immaginarselo come vuole. Il fatto è che “L’ultimo ballo di un concerto
memorabile” suggella in maniera encomiabile 150 pagine scritte al 50 per cento
con la testa e al 50 per cento con il cuore. Vorrei dire che ricordando Marco,
in arte Mock, la poesia del narrare ha preso il sopravvento e s’è imposta come
la cifra narrativa di Carlo, che a mio parere qui compie un salto di qualità
nel suo trentennale cammino di scrittore. E questo è un bene in mezzo a tanti
libri che magari sfondano le classifiche di vendita, ma sono scritti con un
linguaggio, una sintassi, una volontà comunicativa più vicina alla distaccata
relazione da consegnare al capo ufficio che ad un’opera letteraria.
Carlo
non scrive per compiacere un fantomatico capo ufficio o l’ufficio vendite della
casa editrice che lo pubblica da anni (lo confermerà Pietro Macchione) o
qualche critico letterario che lo metta così sotto l’ala. Carlo scrive per
necessità. Come mangiare, bere, respirare. E come amare, piangere, ridere. La
necessità di ricercare “andando come a tentoni”, perché “il mio limite mi sta
sempre dinnanzi”, come recitano i Salmi, il senso del nostro vivere. Nel libro
si parla di fette di torta al sapore di peccato, tradimenti di coppia, faticose
salite in bicicletta al Sacro Monte, materni risotti alla milanese, candide sciate
a Brinzio che finiscono nell’aldilà; fino al racconto lungo che dà titolo al
volume, una micidiale storia d’amore e di morte, di fede e di ragione innestata
sul terremoto in Abruzzo.
Su
tutto, incancellabili come impronte digitali, le domande sulla morte (un
piccolo capolavoro è “Settembre”) e su Dio. Questa è la poesia di Carlo, anzi
la bellezza della poesia di Carlo. Un maestro di vita, giusto sette giorni or
sono, ci ha detto così: “Dobbiamo combattere per la Bellezza. Senza, non
riusciremmo a vivere”. Quando si mette a scrivere, Carlo Zanzi questo lo sa
molto bene.
Riccardo Prando
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