lunedì 5 ottobre 2015

La recensione di Riccardo

                                                                                   ph carlo meazza

3 ottobre  2015 – Salone Estense - “Il giorno che tremò la notte”

Comincerei dal fondo, dalla lettera Z di uno Zanzi che non è il nostro Carlo, ma Francesco. Lo so che non si fa, che non è elegante, ma l’amicizia che ci lega da anni credo mi consenta un appunto affettuoso tanto per non dare la brutta impressione di essere qui per distribuire santini col nome di Carlo. So che a lui non piacerebbe. Magari lo farà chi verrà dopo di noi quando sarà avviata la sua causa di beatificazione… Ecco, allora: Francesco Zanzi non è “un tale”, come scrivi tu nel delicatissimo racconto “L’erba di Redipuglia”, ma “il” soldato semplice del 66° fanteria morto nella Grande Guerra e sepolto, insieme ad altri 100mila –ciascuno con nome e cognome- nel più grande sacrario italiano.

Precisazione di lana caprina? No, se vogliamo che la memoria sia un fatto vivo e a te la memoria sta molto a cuore. Ancor più se non di Francesco Zanzi si parla, ma di Marco, tuo fratello di sangue e, in senso lato, fratello di tanti fra noi che gli hanno voluto bene e dal quale hanno ricevuto bene. Carlo gli dedica non solo il volume, ma anche le ultime due pagine in un racconto che ha il sapore del teatro pirandelliano, in cui il finale rimane sospeso e ciascuno può immaginarselo come vuole. Il fatto è che “L’ultimo ballo di un concerto memorabile” suggella in maniera encomiabile 150 pagine scritte al 50 per cento con la testa e al 50 per cento con il cuore. Vorrei dire che ricordando Marco, in arte Mock, la poesia del narrare ha preso il sopravvento e s’è imposta come la cifra narrativa di Carlo, che a mio parere qui compie un salto di qualità nel suo trentennale cammino di scrittore. E questo è un bene in mezzo a tanti libri che magari sfondano le classifiche di vendita, ma sono scritti con un linguaggio, una sintassi, una volontà comunicativa più vicina alla distaccata relazione da consegnare al capo ufficio che ad un’opera letteraria.

Carlo non scrive per compiacere un fantomatico capo ufficio o l’ufficio vendite della casa editrice che lo pubblica da anni (lo confermerà Pietro Macchione) o qualche critico letterario che lo metta così sotto l’ala. Carlo scrive per necessità. Come mangiare, bere, respirare. E come amare, piangere, ridere. La necessità di ricercare “andando come a tentoni”, perché “il mio limite mi sta sempre dinnanzi”, come recitano i Salmi, il senso del nostro vivere. Nel libro si parla di fette di torta al sapore di peccato, tradimenti di coppia, faticose salite in bicicletta al Sacro Monte, materni risotti alla milanese, candide sciate a Brinzio che finiscono nell’aldilà; fino al racconto lungo che dà titolo al volume, una micidiale storia d’amore e di morte, di fede e di ragione innestata sul terremoto in Abruzzo.


Su tutto, incancellabili come impronte digitali, le domande sulla morte (un piccolo capolavoro è “Settembre”) e su Dio. Questa è la poesia di Carlo, anzi la bellezza della poesia di Carlo. Un maestro di vita, giusto sette giorni or sono, ci ha detto così: “Dobbiamo combattere per la Bellezza. Senza, non riusciremmo a vivere”. Quando si mette a scrivere, Carlo Zanzi questo lo sa molto bene.

                                                               Riccardo Prando


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