Miro Panizza, il cuore e le
lacrime di un campione speciale
di Paolo Costa
Il 5 giugno 2025 Panizza Vladimiro detto Miro compirà 80 anni. Lo festeggeremo in sua assenza, essendo lui scomparso per una crisi di cuore a soli 57 anni. Miro nacque a Fagnano Olona, frazione Fornaci, in una cascina agricola dove regnava la povertà. Il papà Angelo aveva fatto il partigiano e s’era invaghito delle idee comuniste. Perciò volle chiamare il figlio Vladimiro Ilic Ulianov in onore di Lenin. Ma intervennero il parroco e la stimatissima ostetrica Carolina a smussare la spigolosa volontà genitoriale e al piccolo furono aggiunti anche i nomi di Giuseppe e Dante. Così Vladimiro, Ilic, Ulianov, Giuseppe, Dante fu ammesso al Battesimo. Tale ridondanza venne comunque presto abbandonata: Panizzino veniva semplicemente chiamato Miro e per tutti è rimasto per sempre Miro. Anche quando ha scorrazzato per le strade italiane in quanto ciclista molto amato dal pubblico per la sua generosità agonistica. Di Panizza si è parlato parecchio durante l’ultimo Giro d’Italia, nel corso del quale lo sghembo ed eterno Domenico Pozzovivo ha raggiunto le 18 partecipazioni alla corsa rosa. Un record che appartiene anche al corridore di Fagnano, al quale occorre riconoscere il merito di aver concluso per nove volte la prova tra i primi dieci. Due soltanto i ritiri: per una terribile caduta e per una congestione insopportabile persino per uno come lui che veniva chiamato la Roccia. Di minor caratura lo score di Pozzovivo, comunque da ammirare perché i tempi oggi si sono fatti più difficili: sette volte tra i dieci e sei ritiri. Miro ha dalla sua anche sei giorni in maglia rosa, conquistata nel 1980 a 35 anni e difesa strenuamente e orgogliosamente nei confronti di Bernard Hinault, il Campionissimo dell’epoca. La sera della conquista, lasciando cadere qualche lacrimuccia, Miro si confidò al microfono del principe dei telecronisti Adriano De Zan, “The Voice” del ciclismo: “Sono riuscito a 35 anni a prendere la maglia rosa e per me è il sogno più bello che si è avverato. Sono contento così, domani posso anche perderla. Mio figlio mi dirà: no, non è vero, papà, non è vero. Proprio ieri mi aveva detto: t’ho visto, t’ho visto. Chissà se mi prendi la maglia rosa e adesso l’ho presa. Dovessi tenerla anche un giorno soltanto, adesso so che cos’è la felicità. Ho faticato, rischiato, sudato tanto in bicicletta: finalmente ce l’ho fatta”. Che il povero Miro nella vita avesse faticato non c’era dubbio. Da ragazzo dava una mano in casa e fuori casa, nelle faccende della campagna. Era l’ultimo di quattro fratelli, quello più vicino a una mamma presto vedova e sempre indaffarata nonché malaticcia. Non finì le scuole medie ma riuscì ad affermarsi come ciclista. Diventato professionista, nel 1967 venne subito schierato al Giro d’Italia. E nella tappa più spettacolare, con arrivo alle Tre Cime di Lavaredo, fu la vittima sacrificale di comportamenti e decisioni assurde. Miro era scattato ai piedi della terribile salita, sfidando la flagellazione del freddo e della neve, e a poche centinaia di metri dal traguardo era solo in testa alla corsa. Un fatto inatteso e destabilizzante: un debuttante stava ribaltando il Giro! Prima del traguardo fu però superato dai corridori più famosi di lui, che non si capiva come avessero fatto a recuperare il distacco. Enormi furono la sorpresa e l’arrabbiatura, che aumentarono qualche minuto dopo quando venne deciso di annullare la tappa. C’erano state troppe spinte, venne spiegato, e perciò il risultato sportivo non poteva essere considerato valido. Scesero allora sul volto di Miro lacrime amare. Si sentiva defraudato, fregato, tradito: di spinte non ne aveva ricevute, però fu deciso di azzerare tutto. Sergio Zavoli, l’inventore del Processo alla tappa della Rai, pensò allora di donargli la medaglia d’oro destinata al vincitore. Fu un gesto di enorme sensibilità, che lenì in parte la delusione del piccolo scalatore debuttante.
I successi e le baruffe
L’anno successivo, il
1968, Miro fu vittima di una bruttissima caduta durante gli allenamenti
primaverili e saltò quasi tutte le corse. Poi fu assunto dalla Salvarani di
Felice Gimondi, la prima delle sue numerose esperienze caratterizzate da
relazioni difficili coi capitani. Memorabile quello che successe nel 1975.
Panizza vinse la Milano-Torino in maglia Brooklyn, ma subito dopo l’arrivo dovette
affrontare il capitano Roger De Vlaeminck che voleva mettergli le mani addosso.
Il belga si sentiva depositario del diritto a un trionfo che però il coequiper
s’era legittimamente guadagnato, scattando da par suo nella salita di Superga.
Di rapporti burrascosi Miro ne aveva collezionati tanti. Era schietto,
spontaneo, incapace di misurare le parole. Ma chi ne comprendeva sincerità e
genuinità non poteva che volergli bene. Aveva vinto una trentina di corse,
alcune delle quali di grande prestigio. Nel 1975, oltre alla Milano-Torino, fu
primo nella semitappa del Giro con traguardo sul Colle della Maddalena, la
montagna di Brescia. Nel 1976 si aggiunse alla lista dei grandissimi che sono
transitati per primi in vetta all’Aubisque, uno dei colli pirenaici che hanno
fatto la storia del Tour de France. Incurante del maltempo, e gettatosi in
discesa “a tomba aperta” (secondo la felice espressione del giornalista Mario
Fossati), si presentò da solo al traguardo di Pau. Due anni dopo, altra
vittoria al Giro: la tappa con arrivo sul Monte Bondone. Panizza è stato anche
due volte campione italiano di ciclocross e più volte convocato in nazionale.
In
rosa a 35 anni, un premio alla carriera
La maglia rosa del 1980
era dunque arrivata come un premio alla carriera di un corridore che non si
dava mai per vinto e aveva speso miliardi di stille di sudore negli allenamenti
(era sempre il primo a mettersi sulla strada e l’ultimo a rincasare alla sera).
In quella edizione del Giro il suo capitano Beppe Saronni aveva deciso di
puntare alle vittorie di tappa: Hinault era predestinato alla vittoria finale
avendo a disposizione lungo il percorso tanta salita. Nella squadra Gis si era
comunque deciso di controllare il campione francese e di rendergli la vita un
po’ difficile, mettendogli alle calcagna Panizza. Svolgendo questo compito con
diligenza, nella tappa di Roccaraso Miro arrivò insieme al “controllato”. Avevano
seminato tutti gli altri: Hinault vinse la tappa e lui indossò la maglia rosa. Era
il 30 maggio, l’inizio dei sei giorni più belli di Panizza. Il 5 giugno Miro
trascorse un compleanno in agrodolce, ancora in maglia rosa ma per poco.
Approfittando dei tornanti dello Stelvio, Hinault riconquistò infatti il
primato e lo fece in via definitiva. Nel frattempo pur deluso, nella penultima
tappa Panizza trovò la forza di disputare una buona cronometro confermandosi al
secondo posto del podio. Sul palco Rai disse poi a De Zan: “Pensavo di
smettere e adesso dovrò correre un altro anno”. E poi, sorprendendo tutti
gli ascoltatori: “Da domani dovrò occuparmi di altro e dovrò dedicarmi
all’esame di terza media, che mi aspetta a giorni…devo studiare…non si sa mai,
un domani potrà servire, magari per un posto in banca”. Ma in banca Miro
non ci andò mai. Quando smise fu promotore di tantissime iniziative di
solidarietà. Partitelle di calcio e pedalate per raccogliere fondi da destinare
in beneficenza. Con un gruppetto di calciatori ed ex calciatori collaborò al
sostegno dell’attività dei “Bindun”, sodalizio che si proponeva e si propone di
dare una mano a chi si trova in difficoltà. Vennero fondate Case per l’assistenza
a disabili tra le quali c’era anche la “Casa di Miro” per ospitare persone con
problemi psichiatrici. Per qualche anno Panizza è stato anche commissario degli arrivi di tappa.
Lo si vedeva con paletta e fischietto a disciplinare auto, moto e corridori.
Poteva mai, il caro Miro, stare lontano dall’ambiente del Giro d’Italia?
Con
la U maiuscola
Domenica 3 febbraio 2002
nella sala del Museo del Tessile di Busto Arsizio, stracolma di gente, si stava
svolgendo la cerimonia di consegna della prima edizione del premio “Una vita
per la vita”, ideato dal locale centro di Aiuto alla Vita, ente che soccorre
mamme in difficoltà a partire dal periodo della gravidanza. Chi mai poteva
perciò ricevere questo riconoscimento se non lei, Carolina Castiglioni? La
storica levatrice della Valle Olona, con i suoi sessant’anni di servizio alla
causa, non poteva avere rivali. E così quella domenica lei era lì, arzilla come
sempre nonostante le 83 primavere, col suo sorriso e quella capacità di
trasmettere buonumore. Era felice. Una contentezza che alla vista di una
vecchia conoscenza si trasformò improvvisamente in commozione. Gli si era
presentato davanti, infatti, il “suo” Miro Panizza, che aveva tra le braccia un
enorme mazzo di rose rosse per lei. L’ormai ex campione aveva pensato di
rendere omaggio alla “sua” Carolina in questo modo. Anche lui, ma non poteva
essere altrimenti, tradiva una certa emozione e perciò lasciò cadere qualche
lacrimuccia. Esattamente come un tempo era solito fare sul palco della Rai o
indossando la maglia rosa. Carolina era la sua seconda mamma, l’aveva fatto
nascere e accudito nei primi anni di vita. E Miro non aveva dimenticato nulla.
Sofferente di cuore, Miro Panizza ci ha lasciati
il 21 giugno 2002. Il giorno dopo la Gazzetta dello Sport ha scritto: “Non era
un fuoriclasse come Hinault, Moser o Saronni. Però era un uomo con la U maiuscola.”

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