Ringrazio Alberto Palazzi, che ha ospitato questo mio racconto breve sulla rivista 'Menta e Rosmarino' numero 52.
I miracoli, a volte, avvengono.
Il
miracolo dei Pizzoni
di Carlo Zanzi
Stanno
decidendo se lasciarmi morire qui, all’ospedale di Cittiglio, o portarmi nella
mia casa, dentro il mio letto. Sono discorsi che non avrei mai voluto ascoltare
di persona, ma mi toccano. Fosse per me
vorrei vivere in eterno, ma non ci è concesso.
La
vita, questa vita che mi obbliga a sopportare certi ragionamenti, a dover fare
i conti con il dolore e la mancanza, questa vita è veramente un supplizio. Ma
non è stata sempre così. Anzi, già ieri era andata meglio, quando ascoltavo un
dialogo qui vicino al mio letto, gente che non conosco. Una donna, una bella
donna, raccontava che lì in quell’ospedale, a pochi metri dal mio letto di
dolore, i balestrucci, con l’abito nuovo per onorare la primavera, volavano
saettanti fra i sottotetti e il cielo di Cittiglio, intenti ad edificare nuovi
nidi, a riassettare quelli vecchi. “Una meraviglia” raccontava lei. “Uno
spettacolo. Non avrei mai detto che un luogo così triste come un ospedale
potesse accogliere questo miracolo di vita.”
Ecco,
già ieri era meglio. La vita non è sempre un dramma. E allora, come un
cercatore di funghi (e io lo sono stato, con non poche soddisfazioni) vado a
caccia degli attimi luminosi di questo mio cammino così breve. Una ricerca che
mi permetta di accettare questo destino ingrato. Attimi che possano
giustificare una simile miseria finale, un pover’uomo che non si riconosce più
nel suo corpo martoriato.
Loro
discutono dove alloggiare la mia carne malata, perché possa meno brutalmente
avviarsi verso il riposo eterno. Io lascio fare (non potrei diversamente) e
intanto ricordo.
Il
primo bacio: quello Alessandra ed io l’avevamo già consumato, una notte quieta
d’aprile, seduti su una panchina davanti al molo di Laveno, luci di battelli e
di barche, chiacchiere alle nostre spalle, passanti con gelati in mano e bocche
sporche di pizza, aliti alla birra e coppiette avvinghiate. Il primo bacio: Dio
mio che dolcezza, che emozione, che piacere! Ma l’uomo (intendo maschio e
femmina) ha il vizio di non accontentarsi. Volevo di più, ancora di più, come
se fosse possibile salire un gradino oltre la felicità. Così le proposi di
andare a vedere il tramonto ai Pizzoni di Laveno. Era maggio, il 17, e subito
mi viene da dire che la superstizione non esiste; il 17 porta sfortuna? Ma
quando mai? La invitai sulla mia Seicento bianca, targa VA104973, interni in
similpelle amaranto, un odore sgradevole di plastica che cercavo di camuffare
con i maldestri deodoranti dell’epoca. Aveva una gonna molto corta e subito
pensai che avrebbe agevolato l’intraprendenza delle mie dita, di mani sudate e
inesperte.
A
Vararo lasciammo la vettura. Mi ero raccomandato: “Mettiti scarpe comode.” Mi
aveva obbedito: scarpe da tennis Superga bianche, niente calze, due gambe
perfette, la minigonna multicolore, biancheria intima che immaginavo con la
golosità di un maniaco. Copriva i seni gonfi, giovani e tesi una maglietta
bianca, in vita un maglione leggero, se ben ricordo giallo canarino. Il collo
sottile era la corta colonna di un capitello capace di stordirmi tanto era
ammirevole: quel viso rendeva impossibile l’esistenza del male, abbelliva nella
grazia ogni stortura. Ed ero persino riuscito a baciare quelle labbra, a
sfiorare quella lingua. Eppure non mi accontentavo, reso folle da tale femminea
perfezione.
Ci
incamminammo verso i Pizzoni: prima sull’asfalto, poi il sentiero sulla
sinistra, il bosco fitto, la salita impegnativa, nessuno in giro ed io pensavo:
‘Siamo soli. Non posso desiderare altro.’
E
lei? Sorrideva. Parlava poco. Una falsa timida, visto ciò che era successo
davanti all’imbarcadero di Laveno, Nel lento procedere verso le rocce
sommitali, fra respiri profondi, qualche sosta, mano nella mano, volevo farle
intendere che non stavo pensando solo al sesso, quindi cominciai a parlarle di
fiori, della differenza fra il giallo delle ginestre e quello dei
maggiociondoli, confortando il mio dire con la verifica sul campo: “Ecco quella
è la ginestra…Ecco il maggiociondolo...Come puoi notare c’è una bella
differenza, ma qualche incompetente li confonde…Ecco il fior di sambuco, mio
padre lo faceva seccare e ci faceva il pan meino….L’hai mai assaggiato?”
“No,
non mi pare…”
“I
milanesi lo gustano con la panna montata…”
Il
bosco si diradò, il sole calante guadagnò spazi importanti bucando le fronde,
arrivammo sulla cresta finale, prati ridotti e rocce acuminate. Io i Pizzoni li
conoscevo bene, lei non ci era mai salita. Le presi la mano, l’aiutai nei
tratti più ripidi, lei disse più volte: “Ma dove mi hai portato?”
“Non
avere paura, vedrai che bello.”
“Mi
fido di te.”
“E
fai bene.”
Fu
costretta a darmi ragione: il lago sotto di noi apparve come una visione
paradisiaca. Era una lastra d’argento, riflessi d’oro, un prezioso metallo
tirato a lucido e inciso dal procedere di un battello. Ai nostri piedi, oltre
le rocce, gli alberi e il volo, una barca a vela galleggiava nella sera.
“E’
stupendo!” disse lei.
“Che
ti dicevo?”
Ma
io ero lì per altro. La natura, il sole al tramonto ma ancora alto nel cielo,
le abitazioni delle sponde, le tonalità dei verdi e degli azzurri, le nuvole
candide (più candide delle mie intenzioni) avrebbero dovuto esaurire la mia
voglia di bello, ma i giovani sono insaziabili, e anche i vecchi.
Puntavo
ai seni. La bocca l’avevo già assaggiata. Ci sedemmo appoggiando le schiene al
basamento della croce. Anticipai le sue mosse, adagiai la mia testa sulle sue
cosce, in attesa delle sue carezze, dita a rovistare fra i miei capelli
ondulati e lunghi. Non mi accarezzò, restò in silenzio lasciando spazio alla
voce degli uccelli, al fruscìo delle foglie nuove mosse dal vento, all’aroma
delle prealpi. Il suo profumo di giovane donna accompagnò l’evoluzione dei miei
progetti su di lei. Avrei potuto osare di più, avvicinarmi con le labbra alle
sue cosce e salire salire…No, avrei dovuto procedere dall’alto verso il basso,
la bocca e giù, verso i suoi colli…Le baciai la gonna, era ruvida. Con la mano
scivolai sotto la maglietta, lei rabbrividì: “Mi fai il solletico!” disse, con
un tono di voce lievemente indispettito. Fermai la mano, temendo il peggio. E
invece arrivò il miracolo, la mossa inattesa che mi permette, oggi, di tornare
riconoscente su quella sera memorabile.
Alessandra
sussurrò: “Aspetta” facendomi capire che dovevo sollevare il capo, perché era
intenzionata ad alzarsi. E davvero si mise in piedi. I suoi capelli biondi
coprivano il sole, che cercava le vette del Rosa. Incrociò le braccia e si
sfilò la maglietta. “Dici che non passa nessuno?”
“E
chi vuoi che passi?” risposi inebetito.
Si
sganciò il reggiseno.
Mi
inginocchiai davanti a lei.
Non
sono un buon cristiano: non lo sono ora (però prego incessantemente) e non lo
ero allora. Ma guardai i suoi seni, la croce dei Pizzoni alla mia destra e
chiesi al Padre di ogni bellezza che ci regalasse la solitudine assoluta.
Il
Dio misericordioso ascoltò la mia supplica, nessuno ci disturbò, ma Alessandra
non è diventata mia moglie. Qualche mese dopo i Pizzoni suo padre fu trasferito
per lavoro e la famiglia lo seguì. Anni fa, sperando che si potesse ritrovare
il passato, mi diedi da fare per rintracciarla, ma invano. Alessandra è
comunque presente in un modo speciale. Più presente di mia moglie? Una moglie
deve anche risolvere questioni pratiche, ad esempio se farmi morire in casa
oppure no. Alessandra può permettersi il lusso di mostrarsi ancora in tutto il
suo splendore, ed io il lusso di ammirarla.
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