lunedì 15 luglio 2024

Il miracolo dei Pizzoni


 

Ringrazio Alberto Palazzi, che ha ospitato questo mio racconto breve sulla rivista 'Menta e Rosmarino' numero 52.

I miracoli, a volte, avvengono. 


Il miracolo dei Pizzoni

di Carlo Zanzi

 

Stanno decidendo se lasciarmi morire qui, all’ospedale di Cittiglio, o portarmi nella mia casa, dentro il mio letto. Sono discorsi che non avrei mai voluto ascoltare di persona, ma mi toccano.  Fosse per me vorrei vivere in eterno, ma non ci è concesso.

La vita, questa vita che mi obbliga a sopportare certi ragionamenti, a dover fare i conti con il dolore e la mancanza, questa vita è veramente un supplizio. Ma non è stata sempre così. Anzi, già ieri era andata meglio, quando ascoltavo un dialogo qui vicino al mio letto, gente che non conosco. Una donna, una bella donna, raccontava che lì in quell’ospedale, a pochi metri dal mio letto di dolore, i balestrucci, con l’abito nuovo per onorare la primavera, volavano saettanti fra i sottotetti e il cielo di Cittiglio, intenti ad edificare nuovi nidi, a riassettare quelli vecchi. “Una meraviglia” raccontava lei. “Uno spettacolo. Non avrei mai detto che un luogo così triste come un ospedale potesse accogliere questo miracolo di vita.”

Ecco, già ieri era meglio. La vita non è sempre un dramma. E allora, come un cercatore di funghi (e io lo sono stato, con non poche soddisfazioni) vado a caccia degli attimi luminosi di questo mio cammino così breve. Una ricerca che mi permetta di accettare questo destino ingrato. Attimi che possano giustificare una simile miseria finale, un pover’uomo che non si riconosce più nel suo corpo martoriato.

Loro discutono dove alloggiare la mia carne malata, perché possa meno brutalmente avviarsi verso il riposo eterno. Io lascio fare (non potrei diversamente) e intanto ricordo.

Il primo bacio: quello Alessandra ed io l’avevamo già consumato, una notte quieta d’aprile, seduti su una panchina davanti al molo di Laveno, luci di battelli e di barche, chiacchiere alle nostre spalle, passanti con gelati in mano e bocche sporche di pizza, aliti alla birra e coppiette avvinghiate. Il primo bacio: Dio mio che dolcezza, che emozione, che piacere! Ma l’uomo (intendo maschio e femmina) ha il vizio di non accontentarsi. Volevo di più, ancora di più, come se fosse possibile salire un gradino oltre la felicità. Così le proposi di andare a vedere il tramonto ai Pizzoni di Laveno. Era maggio, il 17, e subito mi viene da dire che la superstizione non esiste; il 17 porta sfortuna? Ma quando mai? La invitai sulla mia Seicento bianca, targa VA104973, interni in similpelle amaranto, un odore sgradevole di plastica che cercavo di camuffare con i maldestri deodoranti dell’epoca. Aveva una gonna molto corta e subito pensai che avrebbe agevolato l’intraprendenza delle mie dita, di mani sudate e inesperte.

A Vararo lasciammo la vettura. Mi ero raccomandato: “Mettiti scarpe comode.” Mi aveva obbedito: scarpe da tennis Superga bianche, niente calze, due gambe perfette, la minigonna multicolore, biancheria intima che immaginavo con la golosità di un maniaco. Copriva i seni gonfi, giovani e tesi una maglietta bianca, in vita un maglione leggero, se ben ricordo giallo canarino. Il collo sottile era la corta colonna di un capitello capace di stordirmi tanto era ammirevole: quel viso rendeva impossibile l’esistenza del male, abbelliva nella grazia ogni stortura. Ed ero persino riuscito a baciare quelle labbra, a sfiorare quella lingua. Eppure non mi accontentavo, reso folle da tale femminea perfezione.

Ci incamminammo verso i Pizzoni: prima sull’asfalto, poi il sentiero sulla sinistra, il bosco fitto, la salita impegnativa, nessuno in giro ed io pensavo: ‘Siamo soli. Non posso desiderare altro.’

E lei? Sorrideva. Parlava poco. Una falsa timida, visto ciò che era successo davanti all’imbarcadero di Laveno, Nel lento procedere verso le rocce sommitali, fra respiri profondi, qualche sosta, mano nella mano, volevo farle intendere che non stavo pensando solo al sesso, quindi cominciai a parlarle di fiori, della differenza fra il giallo delle ginestre e quello dei maggiociondoli, confortando il mio dire con la verifica sul campo: “Ecco quella è la ginestra…Ecco il maggiociondolo...Come puoi notare c’è una bella differenza, ma qualche incompetente li confonde…Ecco il fior di sambuco, mio padre lo faceva seccare e ci faceva il pan meino….L’hai mai assaggiato?”

“No, non mi pare…”

“I milanesi lo gustano con la panna montata…”

Il bosco si diradò, il sole calante guadagnò spazi importanti bucando le fronde, arrivammo sulla cresta finale, prati ridotti e rocce acuminate. Io i Pizzoni li conoscevo bene, lei non ci era mai salita. Le presi la mano, l’aiutai nei tratti più ripidi, lei disse più volte: “Ma dove mi hai portato?”

“Non avere paura, vedrai che bello.”

“Mi fido di te.”

“E fai bene.”

Fu costretta a darmi ragione: il lago sotto di noi apparve come una visione paradisiaca. Era una lastra d’argento, riflessi d’oro, un prezioso metallo tirato a lucido e inciso dal procedere di un battello. Ai nostri piedi, oltre le rocce, gli alberi e il volo, una barca a vela galleggiava nella sera.

“E’ stupendo!” disse lei.

“Che ti dicevo?”

Ma io ero lì per altro. La natura, il sole al tramonto ma ancora alto nel cielo, le abitazioni delle sponde, le tonalità dei verdi e degli azzurri, le nuvole candide (più candide delle mie intenzioni) avrebbero dovuto esaurire la mia voglia di bello, ma i giovani sono insaziabili, e anche i vecchi.  

Puntavo ai seni. La bocca l’avevo già assaggiata. Ci sedemmo appoggiando le schiene al basamento della croce. Anticipai le sue mosse, adagiai la mia testa sulle sue cosce, in attesa delle sue carezze, dita a rovistare fra i miei capelli ondulati e lunghi. Non mi accarezzò, restò in silenzio lasciando spazio alla voce degli uccelli, al fruscìo delle foglie nuove mosse dal vento, all’aroma delle prealpi. Il suo profumo di giovane donna accompagnò l’evoluzione dei miei progetti su di lei. Avrei potuto osare di più, avvicinarmi con le labbra alle sue cosce e salire salire…No, avrei dovuto procedere dall’alto verso il basso, la bocca e giù, verso i suoi colli…Le baciai la gonna, era ruvida. Con la mano scivolai sotto la maglietta, lei rabbrividì: “Mi fai il solletico!” disse, con un tono di voce lievemente indispettito. Fermai la mano, temendo il peggio. E invece arrivò il miracolo, la mossa inattesa che mi permette, oggi, di tornare riconoscente su quella sera memorabile.

Alessandra sussurrò: “Aspetta” facendomi capire che dovevo sollevare il capo, perché era intenzionata ad alzarsi. E davvero si mise in piedi. I suoi capelli biondi coprivano il sole, che cercava le vette del Rosa. Incrociò le braccia e si sfilò la maglietta. “Dici che non passa nessuno?” 

“E chi vuoi che passi?” risposi inebetito.

Si sganciò il reggiseno.

Mi inginocchiai davanti a lei.

Non sono un buon cristiano: non lo sono ora (però prego incessantemente) e non lo ero allora. Ma guardai i suoi seni, la croce dei Pizzoni alla mia destra e chiesi al Padre di ogni bellezza che ci regalasse la solitudine assoluta. 

Il Dio misericordioso ascoltò la mia supplica, nessuno ci disturbò, ma Alessandra non è diventata mia moglie. Qualche mese dopo i Pizzoni suo padre fu trasferito per lavoro e la famiglia lo seguì. Anni fa, sperando che si potesse ritrovare il passato, mi diedi da fare per rintracciarla, ma invano. Alessandra è comunque presente in un modo speciale. Più presente di mia moglie? Una moglie deve anche risolvere questioni pratiche, ad esempio se farmi morire in casa oppure no. Alessandra può permettersi il lusso di mostrarsi ancora in tutto il suo splendore, ed io il lusso di ammirarla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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