domenica 5 novembre 2017

Margherita va alla guerra - 2


Sparo ad alzo zero della mia collega Margherita, in merito alla cosiddetta 'buona scuola' e allo stipendio dei prof. Ecco la seconda puntata delle sue considerazioni:


2. ESIGO UN IMMEDIATO MEA CULPA PER LA “BUONA SCUOLA”


3. ESIGO L’IMMEDIATO ADEGUAMENTO DEL MIO STIPENDIO ALLA CRESCITA DELL’INFLAZIONE DEGLI ULTIMI 9 ANNI e ALL’IMPRESSIONANTE AUMENTO DEL MIO CARICO DI LAVORO

2. La buona scuola è stato cambiare nome a cose già esistenti, gettare fumo negli occhi con un surplus di burocrazia. La scuola è buona se e solo se assolve alla sua funzione: formare, attraverso il sapere, dei cittadini consapevoli e responsabili; dotarli degli strumenti necessari per stare al mondo, conoscendo il passato, sapendo leggere, scrivere, far di conto e, possibilmente, interpretare, farsi un’opinione. Compito di ogni governo, anche qui, è CREARE LE CONDIZIONI perché i docenti possano svolgere al meglio questo compito. E come le sta creando queste condizioni? Cito un esempio dei miei nuovi doveri: declinare in dieci modi diversi quando un 4 vale 4. Quando un 10 vale 10. E così via, da 1 a 10. Cioè scrivere cento definizioni per spiegare 10 cose a chi queste dieci cose le capisce benissimo, senza bisogno di spiegazione alcuna. 4? TAC! Sai in un nanosecondo cosa significa.
Alzi la mano chi non capisce all’istante che un 4 significa “va male” e un 10 significa “va benissimo”. Tant’è vero che quelle famose 100 definizioni NESSUNO le legge. E nessuno le legge perché nessuno ha voglia di farsi dare dell’imbecille. L’insegnante però le deve scrivere. Quindi la Buona scuola è una legge che obbliga gli insegnanti a scrivere cose inutili per chi non le leggerà mai. Chapeau! Una legge che si commenta da sola. E, con coerenza, visto che ha come oggetto il nulla, ci spende milioni di soldi e tonnellate di carta, buona per i cessi delle scuole, che notoriamente ne sono sprovvisti. Il rigore logico è il medesimo.
La buona scuola è un insulto all’intelligenza dell’umana specie.
Avanzo una seconda ipotesi: mi costringono a descrivere in dieci modi diversi lo stesso concetto, perché dubitano che io sia in grado di valutare. Guardate, se il problema è questo, non è facendomi declinare un concetto in un profluvio di varianti che il problema si risolve. Trovate una soluzione migliore, altrimenti offendete la vostra intelligenza, oltre che la mia.
Vogliamo parlare del POF che diventa PTOF? Vogliamo parlare della moda delle competenze? Saper fare quello che si sa? E perché il fare dovrebbe essere un fine superiore al sapere, tout court? Chi lo ha deciso? Interpellando chi? Sulla base di quali osservazioni? E se io non le condividessi quelle osservazioni? Ci sono cose che si sanno, e cose che si fanno. Non sempre le due cose sono i due volti di una stessa medaglia. Se io so la storia, non necessariamente faccio la storia. Se so costruire un castello, non necessariamente conosco il Feudalesimo. Se poi vogliamo sostenere che dedicare un’ora o due in classe alla costruzione di un castello aiuti a memorizzare un concetto, d’accordissimo. Ma lo si è sempre fatto, non è una bella novità, è semplicemente un’antica consuetudine.
Non tutto quello che si sa trova un’immediata applicazione pratica. Se vogliamo dare il giusto spazio alle attività pratiche nelle esperienze dei nostri ragazzi, di certo non è la Buona scuola a fornire gli strumenti. Ci vuole più coraggio, molto più coraggio. Create nuove discipline, che insegnino il fare. Date alla scuola esperti di orticoltura, che insegnino a coltivare, senza trasformare un povero insegnante di tecnologia in agricoltore improvvisato, per esempio. Dateci mediatori culturali, anziché sbattere in classe dei bambini che hanno fatto tre settimane di prima alfabetizzazione e poi, che dio ce la mandi buona. Stravolgete gli orari, abolite (per legge!) le due ore di piffero chiamate abusivamente musica, costruite piscine, palestre, campi da gioco per i nostri ragazzi: perché è vero che l’uomo è anche corpo oltre che mente, ma il corpus sanum di certo non si forma con due ore raffazzonate nella palestra della scuola vicina, perché la tua non ce l’ha. Prevedete delle supervisioni, delle occasioni di confronto tra insegnanti e altre figure professionali, magari quegli stessi pedagogisti e psicologi che condizionano la nostra vita rimanendone fuori; e che le figure professionali cortesemente non siano gli psicologi privati che spillano alle famiglie fior di quattrini per scrivere diagnosi di DSA fatte col copia incolla così che quello che all’inizio si chiama Mario, a metà relazione si chiama Anna e a fine relazione si chiama Michele. Ho le prove, non temo smentita.
NIENTE, sottolineo, NIENTE della Buona scuola ha avuto una reale ricaduta sulla qualità dell’insegnamento nella scuola italiana. La buona scuola è una montagna immensa di parole inutili, e sono inutili perché non generano alcun cambiamento nell’esperienza quotidiana di chi sta in classe: insegnanti e alunni. Forse cambia l’esperienza dei Dirigenti, ma i Dirigenti in classe non ci sono. Non ha prodotto nessun miglioramento, niente. Come se non ci fosse stata. Salvo aumentare il tempo sottratto agli insegnanti affinché svolgano il proprio lavoro. Dunque, l’unica cosa tangibile che la Buona scuola ha prodotto si chiama FRUSTRAZIONE. Perché gli insegnanti sono sommersi da una valanga di mansioni del tutto inutili al loro lavoro. Come se a un camionista dicessi che, per portare la merce da Milano a Roma, prima mi deve imbiancare il bagno, poi deve seguire un corso per la patente nautica e poi mi deve cantare l’Inno alla gioia scrivendo a parte un foglio excell in cui analizza i tempi verbali del testo di Schiller. Immagino che il camionista in questione si sentirebbe mortificato, perché lui, povero pirla, credeva che per fare il suo lavoro sarebbe stato sufficiente avere la patente per guidare un camion e invece no.
L’esempio non calza? So perfettamente che insegnare non è propriamente come guidare un camion. Per insegnare devi conoscere la tua materia, e devi avere anche una certa sensibilità, per leggere oltre le apparenze. Devi avere l’umiltà di metterti in discussione e provare a pensare che forse quel 4 che non merita molte spiegazioni (perché un 4 parla chiarissimo) può essere responsabilità del tuo alunno, che non studia, ma può essere anche colpa tua, che non sai spiegare. Insegnare significa stare continuamente nel dubbio: ho fatto quello che dovevo? Ho trovato la chiave per spiegare bene, per mandare a casa i miei alunni almeno per metà già preparati e l’altra metà tocca a loro, come è giusto che sia? Ho spiegato bene, PER TUTTI, il che significa per quello bravo, che capisce al volo, ma anche per quello lento e per quello che conosce trenta parole di Italiano e anche per quello che la mia materia proprio la detesta? E per quello con DSA? Ho preparato il materiale adatto (dove adatto significa “per lui accessibile”)? A quelli che cavalcano con sdegno il cavallo dei due-mesi-di-ferie-pagate vorrei ricordare che insegnare è questa roba qua. Vivere per dieci mesi all’anno, senza sabati, senza domeniche, nel dubbio di avere fatto quello che si deve e adoperandosi per vivere in pace con la propria coscienza. Perché tu non insegni a una classe, ma a tot teste che funzionano in modi diversi ed è tuo dovere raggiungerle tutte. Quindi è un lavoro che non finisce quando esci dall’aula, ma continua a casa dove tu lavori non per una lezione, ma per tot lezioni che poi magicamente devi essere capace di sintetizzare in un’unica lezione. Non so se mi spiego. Un lavoro non semplice. Diversissimo per esempio da quello di un esperto che tiene una conferenza (la vituperata LEZIONE FRONTALE): all’esperto non gliene frega un cazzo di come la sua platea recepisce il suo discorso. Non rientra tra i suoi doveri preoccuparsi se gli astanti comprenderanno o meno quello che ha da dire. Lui detiene un sapere che trasmette (per generosità o dietro lauto compenso); l’effetto di questa trasmissione può essere qualsiasi effetto, non è affar suo. Ma un insegnante non è come il relatore di una conferenza. Lui è pagato soprattutto per preoccuparsi degli effetti che produce. Ma è pagato meno di un camionista. Ha più responsabilità, ma è pagato di meno. Ovvio, perché la scuola è il regno del non-sense.
Qualcuno dirà: invece di lagnarti, fai la camionista. Gli è che io ho studiato per insegnare; ho fatto un concorso pubblico per insegnare; ho stipulato con lo Stato un contratto per insegnare. Ricevo uno stipendio, per insegnare. La patente per guidare il camion invece non ce l’ho. Quello che chiedo è: perché non create le condizioni per cui io possa insegnare? Perché mi pagate meno di un camionista, se è vero che un camionista ha responsabilità meno importanti delle mie (parlo di responsabilità, non di dignità del lavoro, beninteso) avendo a che fare con merci e non con persone? Perché di riforma in riforma i miei compiti aumentano senza che aumenti anche il mio compenso? E perché mi affidate continuamente nuovi compiti che nulla hanno a che fare con il mio lavoro, che sarebbe insegnare? Perché io che ho studiato Italiano, per insegnare devo magicamente sapere l’arabo, il cinese o il russo? Devo aggiornarmi, certo, ma io dichiaro qui la mia inettitudine: io davvero non ce la faccio a imparare il cinese, il russo e l’arabo. Non ce la faccio perché non ho più le agili sinapsi della gioventù e non ce la potrei fare, perché devo scrivere le infinite sfumature di un 4. E preparare cinque o sei lezioni diverse per l’ora di letteratura di domani. Ma credevo di aver firmato un contratto in cui dovevo insegnare Italiano. Se è diverso, cambiatemi contratto. Probabilmente, per 1500 € al mese, io col cazzo che mi metto a studiare tre lingue, anche se mi piacerebbe. E il nuovo contratto non lo firmerei. Però, caro il mio governo, non sono io che ho cambiato i termini del contratto a tradimento. Sei tu che mi hai inculato. Non sarebbe più OVVIO che, nel momento in cui tra i miei alunni compaiono bambini di madrelingua araba, cinese, russa, albanese, qualcun altro sia pagato, almeno nella fase necessaria all’apprendimento di una nuova lingua, per affiancarmi nel mio lavoro? Oppure: perché io dovrei seguire alla lettera le indicazioni di uno psicologo che mi dice cosa fare con il mio alunno dislessico Pietro, quando il mio alunno si chiama Francesco e di Pietro non ne ho nessuno? Cioè, perché io sono subordinata all’autorità di un professionista che manco sa di chi sta parlando e, se non faccio quello che l’ignorante mi dice, sono penalmente a rischio? La premessa è sempre quella: tu sei insegnante, ergo, non sei in grado di stabilire fin dove un alunno può/non può arrivare. Ma se il problema è questo, allora risolvilo, o Buona scuola: fai in modo che siano abilitati all’insegnamento quanti sono in grado di valutare, investi sul reclutamento, perché anche lì, questo è indubbio, la baracca fa acqua da tutte le parti. E fai lavorare in team psicologi e insegnanti: non è che basta una relazione dello psicologo a trasformare il lavoro di una persona.
Di questo tenore sono i problemi della scuola. E ne ho elencati solo alcuni. Che la ministra Fedeli e quelli che sono venuti prima di lei manco si sognano. Ma il danno prodotto dalla loro ignoranza è incalcolabile. Perché a scuola lavora un esercito di persone frustrate che spesso, nonostante la frustrazione, si sforzano di tener fede al loro contratto, come riescono e sempre peggio.
Se tu paghi un insegnante meno di quello che una ditta dà ai suoi camionisti, passi il messaggio che insegnare, molto banalmente, vale meno. Vale più trasportare merce che educare i bambini. Considerato il nostro stipendio, lo Stato agli insegnanti non fa che ripetere: voi non valete un cazzo. Ma anche: i bambini non contano un cazzo, che è peggio. Contano le relazioni degli psicologi, quelle sì, ma tu, Stato, vigila affinché quelle relazioni siano fatte bene e siano gratuite. Perché così ti dice la Costituzione che è sopra a me ma anche sopra a te, cara Fedeli o chi per te. Ripassati almeno l’articolo 3.
“Insegnate agli alunni la Costituzione, mi raccomando!” dice la Buona scuola. E giù una valanga di nuovi deliri sulle “competenze chiave di cittadinanza”, belle distinte in un rivolo di commi e definizioni, perché un conto è la competenza chiave e un conto è la competenza trasversale. Un conto sono le competenze di cittadinanza in quanto cittadini europei, un conto sono le competenze di cittadinanza in quanto cittadini italiani. Non bastava la Costituzione Italiana? Non bastavano le regole del vivere civile in classe, nei corridoi, durante le mense e gli intervalli? Non bastava appassionarsi alla storia di Altiero Spinelli, e raccontarla e far rivivere un ideale? E poi usare le cartine e le meraviglie di Google maps e vedere come l’Unione Europea si è allargata e come adesso si sta sfasciando e forse è il tempo di fermarsi e decidere un po’ come procedere? Ci voleva uno che ha la faccia di Renzi a dirmi che le cose non bastavano, che è meglio, molto meglio specificare le competenze chiave di cittadinanza sì, ma quelle dell’ Unione Europea con le aggiunte nostre, così è un po’ più confuso e davvero creiamo tanti nuovi confusissimi cittadini, buoni per farsi inchiappettare nei decenni futuri.
Ma andate a cagare. La cittadinanza è una cosa seria. E’ diritti e doveri insieme. Ma vi pare che io devo, a proposito di nuovi compiti non retribuiti, insegnare e poi valutare LO SPIRITO DI INIZIATIVA E IMPRENDITORIALITA’ in un bambino di 11 anni? Ma di che cosa stiamo parlandooooooooooooooo???????? Io avevo firmato un contratto che non contemplava queste puttanate. Io MI RIFIUTO di valutare lo spirito di imprenditorialità in un bambino. E’ che proprio mi viene male, non so come spiegarmi. So bene che non è colpa della Buona scuola in questo caso. Stavolta è l’Unione Europea che si impone. Ma io vorrei che il mio governo fosse più lucido e che lo spirito di imprenditorialità no, a scuola no. O non sarà forse che stiamo chiamando con un nome di merda quello che un tempo si chiamava “avere buone idee”? Se così è, la Buona scuola non ha portato nulla di nuovo, solo nomi più brutti a cose che si fanno da sempre.
Per fortuna ci sono gli alunni, a salvare la scuola. Perché se io ai miei alunni racconto che nella gerarchia scolastica il vertice è occupato da una che ha la terza media, nella migliore delle ipotesi ridono, nella peggiore delle ipotesi pensano “allora cosa studio a fare?”. Perché se io racconto ai miei alunni che fuori da scuola devono venirli a prendere i genitori, alcuni rispondono in un secondo “Ma i miei lavorano!”, altri “Seee, ma se è la parte più bella!”, altri ancora “Se ci trattate come se avessimo tre anni, poi non lamentatevi”, forse uno dirà “La mia mamma ci viene già a prendermi” e infatti non sa farsi la cartella da sè.
Quelli che non hanno ancora 14 anni ci arrivano, velocissimi.
Forse veniamo in gita in viale Trastevere, o a Palazzo Chigi. Per il vostro lavoro vi paghiamo quello che vi meritate: EURO = ZERO. Poi, prendendovi per mano all’uscita dai vostri uffici, vi accompagniamo a casa. E guai se uscite da soli. Siamo noi che vi dobbiamo accompagnare al lavoro. Se per caso tardiamo, aspettate. Aspettate pure.




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