Questo raccontino è il mio abbraccio di buon onomastico a mamma Ines.
Nella
pentola scivolò olio extravergine di olia.
Accese
la fiamma, fece piovere dal ristretto cielo della sua cucina cipolla tagliata
sottile, che trovò il condimento e cominciò a scaldarsi. Fiamma controllata,
era stata lei a raccomandarsi: “Fuoco basso, la cipolla deve soffriggere adagio.
La fretta fa danni in cucina. Gira con un cucchiaio di legno e aspetta. Si
imbiondisce lentamente.” E lui così aveva fatto, da allora. Guardando sul fondo
la rivide. Ebbe l’idea: due calici, uno per lei e uno per lui, e il Gewurstraminer, il vino che lei amava.
La bottiglia era in frigo, per le occasioni. Quella stava diventando
un’occasione. Il vino era fresco, la cipolla prendeva colore, stappò, versò nei
due calici. Li raccolse entrambi, uno con la destra, l’altro con la sinistra.
Fece incontrare i cristalli, che liberarono il suono della nostalgia. “Alla
nostra!” disse guardando il volto immaginato della persona amata. Bevve il vino
nel primo calice, quello di destra. La cipolla soffriggeva senza annerirsi,
sollevò il secondo calice, disse “Mi manchi” e bevve ciò che spettava a lei,
troppo distante.
Era
il momento del riso, un bicchiere colmo “Mi raccomando, che sia Carnaroli” e la
qualità giusta volò saltellando e
scoppiettando nel soffritto. Seguirono i cerchi per rimestare con il
legno, “Un paio di minuti, massimo tre, poi il vino” e venne il tempo del Gewurstraminer, che allagò il riso ma
subito scappò dal calore, volgendo a vapore, una nuvola profumata d’uva che
salì dalla pentola con un verso, come il lamento di chi si è scottato.
A
quel punto, lo spazio del vino, avvenne il miracolo. Non aveva sfregato la
lampada di Aladino, ma quel vapore divenne il genio della sua vita, lei, la
madre che lo aveva educato, bambino, nell’arte del risotto alla milanese. Lei sconfitta
dalla vita, vinta dalla morte, sempre presente nel risotto e nei sogni.
“Davvero
speciale questo Gewurstraminer” gli
disse, afferrando con delicatezza il suo calice e chiedendo di nuovo
l’assaggio.
“L’ho
pagato un cifra ma ne valeva la pena, se t’ha fatto tornare” disse lui, con
emozione stupita.
Cozzò
il loro brindisi, mentre il riso friggeva, povero di vino.
“Il
brodo, il brodo” disse la madre. “Ben caldo, mi raccomando.”
“Naturalmente,
lo so molto bene” disse lui.
Dal
fuoco di destra raccolse la pentola con il brodo, versò il liquido sopra il
riso, i funghi porcini, una spruzzata di sale. Allungò il cucchiaio di legno
alla madre: “Vuoi fare tu?”
“Vorrei,
sai che lo vorrei con tutta me stessa.”
“Non
puoi?”
“Te
l’ho insegnato proprio per questo, perché non ti dimenticassi. E ho fatto bene.
Hai buona memoria.”
“Non
te ne andare.”
“Aggiungi
del brodo, gira adagio il tuo risotto.”
“Il
nostro risotto.”
“Dici
bene…il nostro risotto.”
Lui
stava nel mezzo, da un lato il profumo che usciva dal fuoco, dall’altro il
profumo della madre amata, due piaceri che si univano, regalandogli uno spazio
di pace. Ma l’incontro non durò a lungo.
E quando non la trovò più, e il suo chiamarla era una sfida già persa, si
sedette, prese la bottiglia di vino e volle ubriacarsi. Ne bevve a canna, tre
sorsi.
Il
riso aveva di nuovo sete.
“Il
brodo, il brodo” disse. “Non me lo perdonerebbe.”
Posò
la bottiglia, si mise in piedi, accettò di continuare la sfida: il risotto
sarebbe stato la sua quotidiana resurrezione.
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