Non è la prima volta che pubblico qui questo racconto breve, ma lo ripropongo anche oggi anzitutto perché stasera si accenderà la pira in piazza della Motta, e poi perché il protagonista di questo raccontino è tornato prepotentemente d'attualità, grazie ad un suo lapsus freudiano.
Il falò della verità
di carlozanzi
Il
borgomastro di una ricca città del nord s’era vestito pesante, di lana e di
flanella, sciarpa e scarponcini col pelo e una simil colbacco alla russa; barbetta
lunga di tre settimane, mentre si avvicinava alla grande catasta di legna
stringeva nella mano destra una grossa torcia fiammeggiante, nella sinistra un
biglietto. Era lì convenuto per l’accensione del tradizionale falò di Sant’Antonio,
un’usanza di quel borgo che vedeva in cerchio intorno alla collinetta il
sindaco o borgomastro (per dirla alla nordica), il prevosto e altri notabili
della città, fra i quali si distinguevano il capo degli organizzatori della
pira (un ometto tutto bianco di capelli, di sopracciglia e pallido come una luna
smorta) e una signora in età, con un mantello color porpora, a capo della
Famiglia (con la F maiuscola) che si prodigava per tenere vive le tradizioni
del luogo. La stretta via che infilzava la piazzetta era satura di cittadini,
vogliosi di presenziare alla festa.
Era
usanza lanciare nel fuoco biglietti recanti desideri, per lo più amorosi, nella
speranza che il santo arrivasse dove fallivano la buona volontà, il fascino e i
quattrini. Anche il primo cittadino aveva il suo breve scritto ma non chiedeva
mogli, amanti o una botta di vita. Essendo prossime le elezioni di quella
regione, domandava senza giri di parole che vincesse la sua parte, impegnata da
tempo a far valere le ragioni del settentrione. Nella sua mente si figurava il
sud come un diavolo che tirava il nord verso il basso, dentro il fuoco dell’inferno;
o ancor meglio come una sanguisuga, che succhiava sangue ossigenato dal vento
delle Alpi, ingrassava ai danni di un esangue settentrione, costretto a lavorare
il doppio per sovvenzionare pigri fratelli, adusi a lunghe sieste pomeridiane,
svuotati nelle forze da qualche grado in più di calore nell’aria. Mentre intingeva
la torcia fra le cassette di legno lasciò scivolare il biglietto lì accanto, in
attesa che bruciasse tutto, senza lasciare traccia delle sue speranze politiche,
solo qualche brandello di cenere svolazzante nella rigida notte del sedici
gennaio.
Avvenne
un fatto inatteso: la fiamma attaccò subito ma il biglietto, avvolto dal fuoco,
scappò fuori come per timore di scottarsi, si ritrasse intatto, volò, perse
quota e finì proprio davanti allo scarponcino peloso del primo cittadino. ‘La
fiamma avrà propiziato uno sbuffo’ pensò e si inchinò per raccoglierlo.
“Si
sente male?” chiese la signora ammantata di porpora.
“Mai
stato così bene” rispose lui. “Una gran bella festa. E il fuoco prende che è
una meraviglia.”
“Sant’Antoni dul purscèll… ghè da fidàss”
disse la donna, nel dialetto del luogo.
Il
sindaco rispose: “Già..l’è propri vera…”
ma con la mente era al biglietto. Guardò. La prima facciata che lesse era la
sua scrittura, tale e quale. Era già pronto per rilanciare il foglietto nel
fuoco, quando notò che il retro non era intonso. Trasalì. Lesse.
‘Diavolo
d’un borgomastro, cosa pretendi? Che un eremita egiziano quale sono stato io
appoggi la tua secessione? O forse hai sbagliato Antonio, e pensi a quello da
Padova, nato un millennio dopo di me? Certo, Padova farebbe comodo alle tue
mire nordiste. Ma sappi che lui a Padova è solo morto, i suoi natali sono di
Lisbona. Rispedisco dunque il tutto al mittente. E vota bene!’
Il
sindaco traballò.
“Lei
non la conta giusta. Stasera non mi piace. La cera non è buona. Torni a casa”
disse premurosa la capessa della Famiglia.
“Sarà
stato il vin brulè” disse il borgomastro, con il volto trasfigurato dalla
gigantesca fiamma, che crepitava a pochi metri da lui.
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