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Giù la maschera
di Carlo Zanzi
E
venne finalmente l’estate, che portò frutti maturi e la notizia: giù la
maschera. Con gradualità, senza entusiasmi sboccati ma era giunto il tempo
delle carezze, del fiato contro fiato, dei baci, della vicinanza. Marco prese
fra le dita la mascherina, sollevò il coperchio metallico della pattumiera
premendo con il piede destro, lasciò volteggiare nell’aria la tela salvavirus
che finì fra le immondizie di casa, richiuse il coperchio e uscì, alla ricerca
di un libero abbraccio. Non era privo di amici, il primo incontrato sarebbe
stato avvolto da due braccia in carestia: le sue. Ma di vicini di casa non ne
trovò, né lungo le scale né in cortile.
Era
agosto, afa sin dal mattino, gente per strada, chi per compere, chi per sport,
chi per lavoro, molti per il gusto del passeggio anarchico e qualcuno con il
suo obiettivo: un corpo da abbracciare. Passò con piedi svegli per via
Garibaldi, si fermò nel cuore del piccolo sagrato della chiesa della Madonnina,
detta ‘in prato’ perché un tempo attorniata dall’erba, esitò se entrare o
ripartire subito, scarabocchiò un segno di croce, disse ‘Ave Maria…’ ma subito
si dimenticò il resto, confuso dalle tante buone abitudini da rimettere in
calendario, dalla sovrabbondanza di possibilità. In via Bernardino Luini ebbe
l’impressione che stesse sopraggiungendo, in direzione opposta, una persona a
lui nota. Aumentò la cavalca, rallentò…no, si era sbagliato.
Chi
non era solo continuava a dialogare -come d’abitudine negli ultimi, soffocanti
tempi- di pandemia, covid, vaccino, amici dipartiti e altri fuori pericolo, ma
soprattutto di via libera… finalmente.
“Ero
depresso oltre ogni dire...mi è andata bene…è stata dura…il governo poteva far
meglio…l’ho schivata…ho perso una zia e un nonno…morti come cani, senza un
saluto, una mano…ma è finita…”, queste le frasi ricorrenti, intercalate da
imprecazioni ma anche impreziosite da generosi sorrisi, pacche sulle spalle,
strette di mano, buffetti, carezze. Un corpo a corpo persino commovente, atteso
e benefico.
Eppure
Marco, di amici, parenti e conoscenti non ne trovava. Non ne vide in via
Rossini, in piazza Giovine Italia, in piazza san Vittore. Non volle far visita
al buon Dio nemmeno in basilica ma disegnò un altro segno della croce e
aggiunse qualche parola all’Ave Maria, veloce scivolò sotto l’Arco Mera e toccò
una sponda di corso Matteotti, dove certamente avrebbe fatto comunella. E
invece trovò un varesino ancora in maschera. Provò ad immaginare il perché di
quell’insistenza, pensò: ‘Perché non lo chiedo direttamente a lui?’ Quindi osò:
“Mi scusi, perché tiene ancora la mascherina?”
“E
perché no? Lei crede ancora ai politici? Non mi dica…”
“Mi
fido della scienza, più che altro.”
“La
scienza è politica, e la politica è scienza…Faccia come crede, io non ci casco.”
Il
sole si arrampicava sulla volta celeste con agilità estiva, sempre più alto,
sempre più invadente. Marco procedeva sotto i portici, in ombra, curiosava le
vetrine, negozi aperti e commercianti carichi di speranza, già in affari o
sulla soglia, con mezzi inchini, occhiate allusive, labbra socchiuse in
invitanti sorrisi.
Giunto
che fu ad un’estremità del corso svoltò a destra perché aveva bisogno di una
panchina dei Giardini Estensi, lì indirizzò il suo vagabondare. La ghiaia del
nobile e laico sagrato gracchiava sotto le sue suole, si accontentò di una panchina
al sole, si sedette, incrociò le dita dietro la nuca, sentì una stilettata alla
spalla sinistra, tenne alto solo il gomito destro, si mise comodo, chiuse gli
occhi e ripassò i tanti mesi di privazioni, la pazienza necessaria, le
occasioni perdute. Gioì per la rinascita. Aggiunse pensieri distratti, e fra
questi generò l’intuizione: e perché no? E perché non rischiare? Persino una
sberla? In quel clima di ritrovata socialità lo avrebbero perdonato. Avrebbero
capito. E già che c’era, perché non con una bella ragazza? Rischio per rischio.
L’eccitazione rese lecito l’azzardo, si mise in vedetta, studiò i passaggi,
soppesò, scartò, indugiò, infine partì.
Si
mise in piedi quando la vide, pensò di sedersi di nuovo, troppo bella, fuori
quota per lui, incenerì ogni dubbio, gonfiò il petto di coraggio e si frappose
tra la ragazza e un assembramento di piccioni beccanti e svolazzanti.
“Scusi...le
chiederei un favore…è possibile?”
“Un
favore?”
Era
un fiore: alta pur senza tacchi, bella da apparire irreale. Marco si pentì,
pensò a un cambio di direzione ma le parole dissero ciò che non era più alla
sua portata: “La posso abbracciare?”
Era
anche intuitiva, sensibile, probabilmente spiritosa, comprensiva, perché regalò
a Marco un sorriso che diceva: ‘Va bene…’
Si
abbracciarono da sconosciuti. Profumava d’estate. Marco sfiorò con le labbra i
suoi capelli castani. Pensò che il contatto con la morbidezza dei seni, con il
traballìo ritmico del cuore sarebbe venuto meno ora, subito, uno strappo
atroce, ma ciò non avvenne. Sentì -o forse solo immaginò- la corda dell’arco di
Cupìdo tagliare l’aria, uno schiocco impercettibile, la freccia sibilare. Il
colpo secco del fulmine fu invece potente.
Sempre
abbracciato le chiese: “Come ti chiami?” Poi i suoi occhi scivolarono gaudenti
dagli occhi al naso alla bocca al mento, e con un salto sparirono entro la
penombra della scollatura.
questo racconto breve è stato pubblicato sul n° 46 della rivista 'Menta e Rosmarino' luglio 2021
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