domenica 2 novembre 2025

'Duccio Mucciarelli' di Rodolfo Nicodemi


 

DUCCIO MUCCIARELLI  di Rodolfo Nicodemi

 

E bravo il nostro Rodolfo Nicodemi; scrivo ‘nostro’ perché è varesino, meglio, milanese di nascita e varesino di adozione. Bravo perché? Perché già mi aveva convinto con la sua raccolta di racconti ‘L’estate di San Martino’, un’opera di narrativa che aveva favorevolmente impressionato, prima di me, la giuria del Premio Chiara Inediti 2025, scegliendo quel manoscritto come vincitore, pubblicato poi da Macchione. Intrigato da questo ‘seminatore di tracce’ (così ama definirsi Nicodemi) sono andato alla ricerca di altre sue tracce, non molte, visto che prima de ‘L’estate di San Martino’ aveva pubblicato un solo libro, un romanzo, uscito nel 2023 per 0111 Edizioni. Eccolo dunque il romance storico, ‘Duccio Mucciarelli’. Sottotitolo: il ‘900 privato di un reazionario sentimentale. E chi sarebbe questo Duccio? Visto che il libro è dedicato al padre dell’autore, e che Nicodemi ha una convinzione (in fondo non si scrive che di se stessi), non mi è difficile supporre che Duccio sia suo padre, non so quanto romanzato, non so quanto reale. E del resto i conti tornano. Nicodemi si definisce per tre quarti varesino e per un quarto toscano, e la vicenda viaggia proprio fra Lombardia (Varese in particolare), la Toscana e la Liguria. Come in ogni buona saga familiare, entrano in scena molti personaggi, tanto che alla fine del volume abbiamo l’elenco completo. Salgono in cattedra nonno Giovanni, nonna Maria, e Silvio (il padre di Duccio) e gli zii eccetera eccetera. E poi abbiamo Nerina e Marina e Sofia (mamma di Duccio) e tante altre donne, perché il gentil sesso (già nella raccolta di racconti citata) non è affatto estraneo a Rodolfo, che non nasconde di esserne affascinato: almeno stando a ciò che scrive. La vicenda è articolata, copre tutto il ‘900, arriva sino ai primi anni del nuovo Millennio, scorre come un torrente di montagna che, superato il tratto iniziale tutto balzi e schiuma, un poco si quieta incontrando le prime dolcezze della pianura. Il romanzo è ben scritto per due ragioni. Anzitutto perché Rodolfo Nicodemi sa scrivere, e non è poco, tenuto conto che ha cominciato da cinque anni a praticare quest’arte, approfittando della chiusura da Covid e della sopraggiunta pensione. E poi per la motivazione, che non è certo quella del denaro e della gloria imperitura. Quando si superano i settant’anni generalmente ci si imbatte in alcuni vissuti. Uno è potente: il bisogno di fare memoria. Lo si deve a chi ci ha generato, a chi è venuto prima di noi, a chi ha contribuito alla nostra crescita, a chi davvero è stato importante perché entrato nella nostra vita nel tempo memorabile della giovinezza. Fare memoria, che è come dire: io mi ricordo di voi, ne parlo, con la speranza che altri si ricorderanno di me. E cosa c’è, più di un libro, per lasciare una traccia concreta? Una narrazione scritta e stampata è un oggetto vivo, che pulsa fra le dita, che può emozionare, che riattualizza il passato, che rivela segreti. Un romanzo è uno specchio, e se in qualche modo ci si riconosce può fare del bene.   


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