DUCCIO MUCCIARELLI di Rodolfo Nicodemi
E
bravo il nostro Rodolfo Nicodemi; scrivo ‘nostro’ perché è varesino, meglio,
milanese di nascita e varesino di adozione. Bravo perché? Perché già mi aveva
convinto con la sua raccolta di racconti ‘L’estate di San Martino’, un’opera di
narrativa che aveva favorevolmente impressionato, prima di me, la giuria del
Premio Chiara Inediti 2025, scegliendo quel manoscritto come vincitore,
pubblicato poi da Macchione. Intrigato da questo ‘seminatore di tracce’ (così
ama definirsi Nicodemi) sono andato alla ricerca di altre sue tracce, non
molte, visto che prima de ‘L’estate di San Martino’ aveva pubblicato un solo
libro, un romanzo, uscito nel 2023 per 0111 Edizioni. Eccolo dunque il romance
storico, ‘Duccio Mucciarelli’. Sottotitolo: il ‘900 privato di un reazionario
sentimentale. E chi sarebbe questo Duccio? Visto che il libro è dedicato al
padre dell’autore, e che Nicodemi ha una convinzione (in fondo non si scrive
che di se stessi), non mi è difficile supporre che Duccio sia suo padre, non so
quanto romanzato, non so quanto reale. E del resto i conti tornano. Nicodemi si
definisce per tre quarti varesino e per un quarto toscano, e la vicenda viaggia
proprio fra Lombardia (Varese in particolare), la Toscana e la Liguria. Come in
ogni buona saga familiare, entrano in scena molti personaggi, tanto che alla
fine del volume abbiamo l’elenco completo. Salgono in cattedra nonno Giovanni,
nonna Maria, e Silvio (il padre di Duccio) e gli zii eccetera eccetera. E poi
abbiamo Nerina e Marina e Sofia (mamma di Duccio) e tante altre donne, perché
il gentil sesso (già nella raccolta di racconti citata) non è affatto estraneo
a Rodolfo, che non nasconde di esserne affascinato: almeno stando a ciò che
scrive. La vicenda è articolata, copre tutto il ‘900, arriva sino ai primi anni
del nuovo Millennio, scorre come un torrente di montagna che, superato il
tratto iniziale tutto balzi e schiuma, un poco si quieta incontrando le prime
dolcezze della pianura. Il romanzo è ben scritto per due ragioni. Anzitutto
perché Rodolfo Nicodemi sa scrivere, e non è poco, tenuto conto che ha
cominciato da cinque anni a praticare quest’arte, approfittando della chiusura
da Covid e della sopraggiunta pensione. E poi per la motivazione, che non è
certo quella del denaro e della gloria imperitura. Quando si superano i settant’anni
generalmente ci si imbatte in alcuni vissuti. Uno è potente: il bisogno di fare
memoria. Lo si deve a chi ci ha generato, a chi è venuto prima di noi, a chi ha
contribuito alla nostra crescita, a chi davvero è stato importante perché
entrato nella nostra vita nel tempo memorabile della giovinezza. Fare memoria,
che è come dire: io mi ricordo di voi, ne parlo, con la speranza che altri si
ricorderanno di me. E cosa c’è, più di un libro, per lasciare una traccia
concreta? Una narrazione scritta e stampata è un oggetto vivo, che pulsa fra le
dita, che può emozionare, che riattualizza il passato, che rivela segreti. Un
romanzo è uno specchio, e se in qualche modo ci si riconosce può fare del bene.


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