ph carlozanzi
Favola
per un bambino per ora solo pensato
di Elisabetta Ferrari
Forse era un’iride, o la sfumatura di un petalo,
o rugiada di nuvola
un nulla, quasi
però sorrideva
ed era lì… o forse un poco in là, sospeso
paziente
davanti a lui il mondo, tutto quanto quanto
è grande, paperi pesci foglie automobili casseruole; ce n’era tanto, di mondo,
che sembrava non finire mai, mai
poteva essere un bimbo – c’erano anche i
bambini, appunto – solo che
solo che per ora era un pensiero
un’ombra saltellante, un piccolo piede, un
ricciolo, un movimento nuovo in testa a una mamma, a un papà
che ancora non sapevano di esserlo, in
pratica non lo erano
ma cosa significa “in pratica”? per lui
erano importanti le sfumature, le capiva
non ancora quale mamma, quale papà
questo sarebbe venuto poi, a suo tempo
ma cos’è, poi, il tempo? difficile da
immaginare
così, per ora, era un pensiero
aveva un parco
vialetti sabbiosi, cani simpatici, alberi,
una miriade di passeri
giocava a confondersi con il riflesso della
vasca dei pesci rossi
oppure in un colpo d’ala, in un grido acuto
doveva essere bello lanciare grida,
scivolare nell’aria, volare proprio come loro
poteva provarci, ma non aveva quell’abbandono,
non era ancora certo di sé
si sentiva bene tra il sesto e il settimo
ramo di un grande platano
l’aria della città aveva a quell’altezza una
consistenza particolare, morbida: a seconda dei momenti del giorno, o della
notte, si screziava in tinte sempre diverse, azzurre rosa rosse arancio verde,
e ogni colore era in realtà un’astrazione, una possibilità, una sensazione, un
sentimento
tutto questo messo insieme
poteva prevalere l’uno o l’altro aspetto,
certo
comunque ogni tanto dormiva
giusto perché così faceva il mondo
le foglie addormentate, ad esempio, erano
deliziose
perfettamente ferme, appoggiate a un cuscino
d’aria, assumevano un colore verde-roseo che apparteneva solo a loro
anch’egli aveva provato a condividere quell’immobile
perfezione, ma aveva fatto davvero fatica, e poi era venuto un uccelletto a
svegliarlo! talvolta erano i cuscini d’aria che scivolavano via all’improvviso
allora le foglie si svegliavano, qualcuna
sbadigliava
riprendevano il verde consueto, spesso
sfumato di smog
dubitava che un essere umano se ne fosse mai
accorto, però non si poteva dire
infatti esistevano i poeti; venivano al
parco a prendere una boccata di poesia, uomini o donne, o anche ragazzi, con la
testa piena di motivetti, sensazioni, grovigli di parole accartocciate, grumi
di bellezza, o di bruttezza, o dolore, tutta roba che sarebbe diventata
significato
ecco, una volta aveva provato ad entrare in
un grumo, e ci si era proprio trovato bene: c’era dentro qualcosa di bello, per
fortuna! ma quasi subito il poeta – era una ragazza, in questo caso – aveva
lanciato un gridolino di gioia alla vista di un ragazzo che le veniva incontro
il grumo si era d’un subito sciolto
era scivolato nel loro abbraccio; si era
sentito anche meglio – per un istante, poi aveva capito che non si erano
accorti di lui…
quindi aveva affinità con quella specie in
particolare
avrebbe voluto che si fossero accorti di lui
era tornato fra il sesto e il settimo ramo
del tutto simile a un dubbio
l’aria si era colorata di rosso, troppo
acceso
non era normale sotto quel cielo, che amava
presentarsi grigio-perla, azzurro tenue tenue, raramente azzurro e basta
interpretava così la gente che si muoveva
sotto, sopra, attraverso di lui, i suoi umori
tranne quando arrivava il vento, certo;
allora tutto diventava verde acceso, marrone intenso; il cielo, con
condiscendenza, blu
col vento un giorno erano arrivati due
ragazzi… ma prima? quel colore rosso…
si era rivolto al più anziano dei pesci
rossi (appunto!) che nuotavano, indifferenti al resto del mondo, nella grande
vasca liberty ad una estremità del parco; di fronte al suo sguardo grave e
attonito aveva spiegato che si era mosso per somiglianza – ma quello non aveva
cambiato il proprio aspetto di una scaglia; dopo un lungo momento, la pinna
dorsale gli aveva chiesto che cosa fosse questo “cielo”
non c’era vera curiosità, né vera attenzione
verso di lui, i pesci del parco erano fatti così, vedevano tutto ma non si
interessavano di nulla
una quantità di individui veniva ad
osservarli apposta, indagando nei disegni astratti tracciati dai loro
andirivieni significati profondi
pluf! un bambinetto aveva lanciato un
sassolino nell’acqua, e mastro pesce se n’era andato senz’altro, lasciandolo
libero di andarsene a sua volta, con gli stessi interrogativi di prima
il cielo era tutto rosa carico, splendente;
passò accanto a una bambina che, deliziata, se ne stava a naso in su; si
arrestò per un certo tempo all’angolo del suo sorriso, felice di quella
felicità; poi la mamma la portò via, “andiamo a casa” disse
una mamma e un papà si collegavano a una
casa
l’aiuola dei fiori rossi era un tripudio di
fremiti, palpiti, delizia; il colore dell’aria raddoppiava lo splendore dei
petali, e questo è un fiore: il piacere di sciorinare il suo abito delicato;
nessuno era allarmato dalla novità, ed egli non volle rischiare una nuova
incomprensione
cominciava a sentirsi un poco staccato dal
suo mondo
era tornato sul suo platano, e di momento in
momento la cupola alta sopra tutti sembrava prossima a un incendio
lo stormo dei passeri, chiacchierino,
appariva e scompariva ad ogni angolo, al suo solito; d’improvviso gli fu
intorno, in quel continuo batter d’ali, lo fece suo: dal platano passò al pino,
poi all’olmo vicino alla cancellata, di qui al rododendro, in un’ebbrezza di
velocità pura
una vocetta gli chiese:“Non sei felice con
noi? Volare, passare oltre non è nulla per te?”
“Tu mi puoi vedere?” esclamò lui
“Beh, forse non proprio vedere… so che ci
sei. Noi sappiamo tutto” ora la voce era un coro stridente, ora una nota alta e
ripetuta, battuta con certezza
“Allora puoi spiegarmi perché l’aria stasera
ha questo colore? Non posso stare tranquillo…”
lo stormo si sciolse in un batter d’occhio,
poi si ricompose
“L’aria? Tu noti un colore particolare?
L’aria ha in sé tutti i colori, l’aria è perfetta. perfetta. perfetta.” ripeté
una, cento, mille voci
si ritrovò sul platano, e lo stormo era già
lontano
poi fu notte, e il suo colore solito
si svegliò con le foglie: nel mattino
ventoso una parte di esse rideva, quasi ubriaca, persa in un folle dondolio; le
altre, sdegnate, alternavano i lamenti alle proteste per quel continuo disturbo
le folate continuavano a passare,
indifferenti
si erano accesi i colori: il cielo era blu,
la sabbia dei vialetti di un bianco abbagliante, l’erba verde intenso – l’erba
normalmente sbiadita di un incongruo piccolo parco nel bel mezzo della città;
perfino le auto, fuori dai cancelli, splendevano, e l’asfalto aveva una consistenza
nuova, brillante, non quella dimessa dei giorni normali
per lui i giorni e le notti erano ancora una
partizione incerta di un qualcosa di indistinto che credeva fosse il “tempo”;
ma quello era di sicuro un giorno; di vento
sarebbe accaduto qualcosa
lo chiamavano
ecco: era questo
ma non aveva nome; né consistenza; non era
neppure nel tempo, non proprio, almeno, e per questo un determinato livello di
realtà non riusciva a coglierlo: poteva farsi trasportare dalle ventate, oppure
lasciarsi attraversare, a suo piacere
in fondo era felice
o almeno gli sembrava
“Io di che colore sono?”
lo chiese alla foglia più vicina; quella lo
guardò, dovette sbattere – con fastidio – alla ventata, tornò a fissarlo
“Mah… non hai un vero colore. O almeno non
l’avevi. Da ieri…”
“Da ieri?” incalzò lui, che non se
l’aspettava
“Beh, lo dicevo poco fa, qui, con le mie
sorelle. Da ieri sembri meno incerto, più color… color… dell’aria.”
“Ma l’aria non ha colore!” replicò deluso
“Ma certo che ce l’ha. Ne ha infiniti. Non
riesci a vederli dal tuo ramo?”
“Sì, ma… è quasi impercettibile. Cambia di
continuo.”
“Ecco, il tuo colore invece si sta fissando.
Non credo che tu sia una foglia. E neppure un albero, a considerarti bene.”
“E… è importante?” finora non lo era mai
stato
“Beh, forse no. E così te ne andrai, ora?”
ma cosa stava succedendo? di nuovo, lo
chiamavano
“Andarmene? Ma dove? E perché?”
“Eh…” fece la corteccia, che interveniva
assai di rado, ma avendo molta esperienza era ascoltata con grande attenzione e
rispetto: “Gli interrogativi fondamentali che ogni essere si pone. Solo i più fortunati
trovano la risposta, dopo un’infinità di ricerche. Ma tu non hai ancora
incominciato la tua. Vedrai, sarà interessante. Avventuroso. Complicato.”
era confuso; il sole abbagliava, ma non era
quella la direzione; l’acqua della vasca splendeva, e persino i pesci
sembravano prendere parte alla musica allegra dell’aria: ma lui non era un
pesce; lungo i viali del parco uomini e donne, a spasso con il cane o con i
propri pensieri, tenevano anch’essi il ritmo delle folate
si posò vicino a un piccolo cane bianco che
già conosceva; i cani erano proprio simpatici: lo vedevano perfettamente, come
del resto vedevano una quantità di cose del tutto ignota agli esseri che se li
trascinavano attorno… era il loro destino, sapere senza poter trasmettere la loro
conoscenza tranne che tra loro e a pochi altri esseri a mezzo tra i mondi
si salutarono con affetto
“Ehi, guarda che ti chiamano!” lo avvertì il
piccolo cane, che per parlare con lui si era distolto da un cespuglio
particolarmente interessante
“Allora è vero!” esclamò “Ma tu come fai a
saperlo?”
“Io sono un cane!” replicò l’altro “Sono
abituato a sentirmi chiamare tutto il tempo, a proposito e a sproposito. Per te
è una cosa nuova, eh?”
“Ma tu capisci il mio nome?” per la prima
volta provava una specie di ansia
“No, non è proprio un nome, non ancora. Ma
quella è l’ultima definizione, sai? e non è quella importante. Questo è un
richiamo di appartenenza, è fondamentale. Prima o poi doveva succedere.”
“Ma dove devo andare? Con tutto questo
rumore io mi perdo…”
“Beh, direi che oggi è il vento che dirige
le cose. Quelli più portati dal vento mi sembrano quei due, laggiù, sulla
panchina. Io andrei a vedere…”
due innamorati: si stringevano teneramente,
parlando una lingua armoniosa, un suono di felicità
si avvicinò guardingo, il cane doveva
essersi sbagliato: i due erano un cerchio perfetto, non c’era alcuno spiraglio
nella loro comunione; accadeva spesso con quel genere di esseri, c’era
abituato: emanavano un che di gioioso nel quale molte volte si era adagiato;
poi se ne andavano, lasciando un vuoto immenso
eppure… il richiamo davvero pareva venire da
loro
si avvicinò ancora… erano simpatici! lei
teneva le mani aperte, come se volesse afferrare qualcosa…
facilmente, senza strappi o fratture, si
chiuse nel loro cerchio, cominciò a ruotare in esso, sempre più forte, e fu nel
loro pensiero, nella loro anima, nel loro possibile futuro, non più lampo di
un’iride, o sfumatura di petalo, o rugiada di nuvola…
Forse, essere umano.
Questo racconto, che lei definisce sperimentale, è di Elisabetta Ferrari. Ha vissuto a Peschiera Borromeo sino al 2003, quando è arrivata a Varese. Sposata, un figlio, laureata in Lettere Classiche nel 2012. Considera la letteratura di ogni tempo il suo vero orizzonte interiore. Scrive poesie, racconti e testi per il teatro. Ha curato la regia di alcuni eventi culturali.