Mi
chiamo Franz
di carlozanzi
Mi
chiamo Franz, sono grasso e questo mi dà turbe psicologiche, sono spesso nervoso,
ce l’ho con Dio che mi ha fatto così, brutto a vedersi, sempre stanco,
affaticato, asmatico, goffo. E allora mi vendico approfittando del mio ruolo,
della mia divisa. Ma la divisa di guardia carceraria al castello del Buonconsiglio
di Trento mi permette poco. Sono un subalterno, per giunta obeso. Sono un
infelice, che trova attimi di gioia quando accompagno i prigionieri in cella o
al patibolo, derelitti che stanno peggio di me. Li conduco nelle buie carceri,
li vedo piangere, disperarsi, imprecare, maledire, bestemmiare e provo il gusto
di una superiorità: almeno questo mi è stato risparmiato. Non dovrò subire
simili umiliazioni. Non dovrò soffrire sino al cappio. Una gioia meschina, lo
ammetto, che mi concede di riprendere fiato e di sopportare la mia pinguedine e
il dramma di questa guerra. Che è solo dolore. Per tutti.
Oggi
12 luglio 1916 la guardia Franz, cioè io, si sente strana, mentre cammina verso
la sua camerata. Stanca e confusa. Privata di quella misera gioia dei mediocri.
Quest’oggi ho accompagnato a morire, per impiccagione, Cesare Battisti. Insieme
ad altri prigionieri. L’ho visto morire, non ho scansato gli occhi dalla scena,
mi sono impegnato in una prova di coraggio, seguirlo sempre, sin giù ai piedi e
alle gambe che penzolano e si agitano a scatti, oltre l’ultimo fiato.
Non
so che mi ha preso. Dicono che questo Battisti sia un traditore, in effetti è
un deputato austriaco che si è arruolato volontario contro i nostri nemici
italiani, che ha ucciso soldati austriaci come me. Avrebbe potuto farmi fuori,
senza pietà. E perché dovrei avere pietà di lui? Ma oggi ho scoperto che la
pietà non si impara. Non si riceve a comando. La pietà si prova. Ma non è solo
pietà. L’ho ammirato. Se mi sentissero i miei capi, farei la fine di
quell’uomo. Ma so tenere i segreti dentro di me, se mi conviene. Non mi faccio
fregare. Devo fare la mia parte e la reciterò sino alla fine. Che vantaggio
avrei a confessare i miei sentimenti? Le mie reali emozioni?
Quest’uomo
crede per davvero. Non a se stesso, ai suoi interessi, ai soldi. Crede all’idea
che Trento debba tornare all’Italia. Ma si può morire per questa velleità?
Sopportare una corda al collo per un’idea? Perdere tutto a quarant’anni, lasciare una
moglie, tre figli, la vita….caro Franz, sarai anche grasso da far schifo ma la
vita è vita. E Cesare Battisti era anche
un bell’uomo, snello, alto.
Sto
per arrivare dai miei commilitoni, in branda, la faccio breve perché quando
entrerò lì dentro dovrò comportarmi da irreprensibile soldato austriaco.
Abbondiamo di spie. Ma qui posso ancora parlare, nei pochi passi che mi
separano da quell’uscio.
Ieri
hanno fatto salire il Battisti sopra un carro trainato dai buoi e gli hanno
fatto fare un giro per Trento, dove gente della sua città lo ha deriso,
insultato. Gli hanno persino sputato in faccia. E lui ha anche pianto, ma per
pochi attimi. Poi su dritto, petto in fuori, serio, orgoglioso: una statua.
E
poi quel bastardo di un boia, Lang, venuto da Vienna ancora prima del processo,
un processo che è stato ridicolo. Battisti doveva morire, dopo un cammino di
passione. Non ha potuto difendersi, non ha potuto scrivere alla famiglia, ha
chiesto di essere fucilato, che rispettassero la sua divisa e invece lo hanno
vestito di stracci e gli hanno negato quella sua estrema volontà. E il boia? Io
ho visto che la corda si è spezzata dopo il primo tentativo, non gli hanno
concesso la grazia e l’hanno impiccato un’altra volta. Ma quella corda, la
prima, era troppo sottile, e quando a Lang ho detto: “Quella corda dove l’hai
presa?” lui mi ha risposto, con un sorriso “Quella buona è in valigia.” Ma è
possibile ridere davanti alla morte di un uomo? E Lang rideva anche dopo
l’impiccagione, quando è stata scattata la fotografia, a testimonianza della
morte di Battisti.
Questa
guerra ci sta avvelenando. Sono troppo
vigliacco per sperare di morire come quell’uomo di Trento, che Trento ha
tradito, non ha rispettato. Ecco, sto per entrare in camerata, qualche stronzo
di un mio compagno mi scherzerà per il mio ventre, li perdono perché siamo in
guerra e se li faccio ridere, che ridano. Ma prima di entrare mi affaccio a
questa finestra, vedo la città, il monte Doss, che gli antichi romani
chiamavano verruca. Torno alla fossa della Cervara, che da qui non vedo, è
dietro al castello: lì hanno tirato il collo a quell’uomo. Un grande uomo. Lo ammetto: vorrei essere come lui. Sì, anche
magro e bello come lui, ma soprattutto capace di morire come lui. Vivrò
cent’anni ma a che scopo? Vedere che il mio ventre si gonfia? E pensare che
mangio poco. Nemmeno il digiuno obbligato dalla guerra mi aiuta. Entro in
camerata da disperato. Ora mi butto sul
letto e spero che il sonno risolva i miei guai.
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