giovedì 24 gennaio 2019

Il racconto di Elisabetta

                                                                                                 ph carlozanzi



Favola per un bambino per ora solo pensato

di Elisabetta Ferrari

   
Forse era un’iride, o la sfumatura di un petalo, o rugiada di nuvola
   un nulla, quasi
   però sorrideva
   ed era lì… o forse un poco in là, sospeso
   paziente
   davanti a lui il mondo, tutto quanto quanto è grande, paperi pesci foglie automobili casseruole; ce n’era tanto, di mondo, che sembrava non finire mai, mai

   poteva essere un bimbo – c’erano anche i bambini, appunto – solo che

   solo che per ora era un pensiero
   un’ombra saltellante, un piccolo piede, un ricciolo, un movimento nuovo in testa a una mamma, a un papà
   che ancora non sapevano di esserlo, in pratica non lo erano
   ma cosa significa “in pratica”? per lui erano importanti le sfumature, le capiva
   non ancora quale mamma, quale papà
   questo sarebbe venuto poi, a suo tempo
   ma cos’è, poi, il tempo? difficile da immaginare
   così, per ora, era un pensiero

   aveva un parco
   vialetti sabbiosi, cani simpatici, alberi, una miriade di passeri
   giocava a confondersi con il riflesso della vasca dei pesci rossi
   oppure in un colpo d’ala, in un grido acuto
   doveva essere bello lanciare grida, scivolare nell’aria, volare proprio come loro
   poteva provarci, ma non aveva quell’abbandono, non era ancora certo di sé

   si sentiva bene tra il sesto e il settimo ramo di un grande platano
   l’aria della città aveva a quell’altezza una consistenza particolare, morbida: a seconda dei momenti del giorno, o della notte, si screziava in tinte sempre diverse, azzurre rosa rosse arancio verde, e ogni colore era in realtà un’astrazione, una possibilità, una sensazione, un sentimento
   tutto questo messo insieme
   poteva prevalere l’uno o l’altro aspetto, certo

   comunque ogni tanto dormiva
   giusto perché così faceva il mondo
   le foglie addormentate, ad esempio, erano deliziose

   perfettamente ferme, appoggiate a un cuscino d’aria, assumevano un colore verde-roseo che apparteneva solo a loro
   anch’egli aveva provato a condividere quell’immobile perfezione, ma aveva fatto davvero fatica, e poi era venuto un uccelletto a svegliarlo! talvolta erano i cuscini d’aria che scivolavano via all’improvviso
   allora le foglie si svegliavano, qualcuna sbadigliava
   riprendevano il verde consueto, spesso sfumato di smog

   dubitava che un essere umano se ne fosse mai accorto, però non si poteva dire
   infatti esistevano i poeti; venivano al parco a prendere una boccata di poesia, uomini o donne, o anche ragazzi, con la testa piena di motivetti, sensazioni, grovigli di parole accartocciate, grumi di bellezza, o di bruttezza, o dolore, tutta roba che sarebbe diventata significato

   ecco, una volta aveva provato ad entrare in un grumo, e ci si era proprio trovato bene: c’era dentro qualcosa di bello, per fortuna! ma quasi subito il poeta – era una ragazza, in questo caso – aveva lanciato un gridolino di gioia alla vista di un ragazzo che le veniva incontro

   il grumo si era d’un subito sciolto
   era scivolato nel loro abbraccio; si era sentito anche meglio – per un istante, poi aveva capito che non si erano accorti di lui…

   quindi aveva affinità con quella specie in particolare

   avrebbe voluto che si fossero accorti di lui

   era tornato fra il sesto e il settimo ramo
   del tutto simile a un dubbio

   l’aria si era colorata di rosso, troppo acceso
   non era normale sotto quel cielo, che amava presentarsi grigio-perla, azzurro tenue tenue, raramente azzurro e basta
   interpretava così la gente che si muoveva sotto, sopra, attraverso di lui, i suoi umori
   tranne quando arrivava il vento, certo; allora tutto diventava verde acceso, marrone intenso; il cielo, con condiscendenza, blu

   col vento un giorno erano arrivati due ragazzi… ma prima? quel colore rosso…

   si era rivolto al più anziano dei pesci rossi (appunto!) che nuotavano, indifferenti al resto del mondo, nella grande vasca liberty ad una estremità del parco; di fronte al suo sguardo grave e attonito aveva spiegato che si era mosso per somiglianza – ma quello non aveva cambiato il proprio aspetto di una scaglia; dopo un lungo momento, la pinna dorsale gli aveva chiesto che cosa fosse questo “cielo”
   non c’era vera curiosità, né vera attenzione verso di lui, i pesci del parco erano fatti così, vedevano tutto ma non si interessavano di nulla
   una quantità di individui veniva ad osservarli apposta, indagando nei disegni astratti tracciati dai loro andirivieni significati profondi
   pluf! un bambinetto aveva lanciato un sassolino nell’acqua, e mastro pesce se n’era andato senz’altro, lasciandolo libero di andarsene a sua volta, con gli stessi interrogativi di prima

   il cielo era tutto rosa carico, splendente; passò accanto a una bambina che, deliziata, se ne stava a naso in su; si arrestò per un certo tempo all’angolo del suo sorriso, felice di quella felicità; poi la mamma la portò via, “andiamo a casa” disse

   una mamma e un papà si collegavano a una casa

   l’aiuola dei fiori rossi era un tripudio di fremiti, palpiti, delizia; il colore dell’aria raddoppiava lo splendore dei petali, e questo è un fiore: il piacere di sciorinare il suo abito delicato; nessuno era allarmato dalla novità, ed egli non volle rischiare una nuova incomprensione

   cominciava a sentirsi un poco staccato dal suo mondo

   era tornato sul suo platano, e di momento in momento la cupola alta sopra tutti sembrava prossima a un incendio

   lo stormo dei passeri, chiacchierino, appariva e scompariva ad ogni angolo, al suo solito; d’improvviso gli fu intorno, in quel continuo batter d’ali, lo fece suo: dal platano passò al pino, poi all’olmo vicino alla cancellata, di qui al rododendro, in un’ebbrezza di velocità pura
   una vocetta gli chiese:“Non sei felice con noi? Volare, passare oltre non è nulla per te?”
   “Tu mi puoi vedere?” esclamò lui
   “Beh, forse non proprio vedere… so che ci sei. Noi sappiamo tutto” ora la voce era un coro stridente, ora una nota alta e ripetuta, battuta con certezza
   “Allora puoi spiegarmi perché l’aria stasera ha questo colore? Non posso stare tranquillo…”
   lo stormo si sciolse in un batter d’occhio, poi si ricompose
   “L’aria? Tu noti un colore particolare? L’aria ha in sé tutti i colori, l’aria è perfetta. perfetta. perfetta.” ripeté una, cento, mille voci
   si ritrovò sul platano, e lo stormo era già lontano

   poi fu notte, e il suo colore solito

   si svegliò con le foglie: nel mattino ventoso una parte di esse rideva, quasi ubriaca, persa in un folle dondolio; le altre, sdegnate, alternavano i lamenti alle proteste per quel continuo disturbo
   le folate continuavano a passare, indifferenti

   si erano accesi i colori: il cielo era blu, la sabbia dei vialetti di un bianco abbagliante, l’erba verde intenso – l’erba normalmente sbiadita di un incongruo piccolo parco nel bel mezzo della città; perfino le auto, fuori dai cancelli, splendevano, e l’asfalto aveva una consistenza nuova, brillante, non quella dimessa dei giorni normali 

   per lui i giorni e le notti erano ancora una partizione incerta di un qualcosa di indistinto che credeva fosse il “tempo”; ma quello era di sicuro un giorno; di vento
   sarebbe accaduto qualcosa

   lo chiamavano
   ecco: era questo
 
   ma non aveva nome; né consistenza; non era neppure nel tempo, non proprio, almeno, e per questo un determinato livello di realtà non riusciva a coglierlo: poteva farsi trasportare dalle ventate, oppure lasciarsi attraversare, a suo piacere

   in fondo era felice
   o almeno gli sembrava

   “Io di che colore sono?”
   lo chiese alla foglia più vicina; quella lo guardò, dovette sbattere – con fastidio – alla ventata, tornò a fissarlo
   “Mah… non hai un vero colore. O almeno non l’avevi. Da ieri…”
   “Da ieri?” incalzò lui, che non se l’aspettava
   “Beh, lo dicevo poco fa, qui, con le mie sorelle. Da ieri sembri meno incerto, più color… color… dell’aria.”
   “Ma l’aria non ha colore!” replicò deluso
   “Ma certo che ce l’ha. Ne ha infiniti. Non riesci a vederli dal tuo ramo?”
   “Sì, ma… è quasi impercettibile. Cambia di continuo.”
   “Ecco, il tuo colore invece si sta fissando. Non credo che tu sia una foglia. E neppure un albero, a considerarti bene.”
   “E… è importante?” finora non lo era mai stato
   “Beh, forse no. E così te ne andrai, ora?”

   ma cosa stava succedendo? di nuovo, lo chiamavano

   “Andarmene? Ma dove? E perché?”
   “Eh…” fece la corteccia, che interveniva assai di rado, ma avendo molta esperienza era ascoltata con grande attenzione e rispetto: “Gli interrogativi fondamentali che ogni essere si pone. Solo i più fortunati trovano la risposta, dopo un’infinità di ricerche. Ma tu non hai ancora incominciato la tua. Vedrai, sarà interessante. Avventuroso. Complicato.”

   era confuso; il sole abbagliava, ma non era quella la direzione; l’acqua della vasca splendeva, e persino i pesci sembravano prendere parte alla musica allegra dell’aria: ma lui non era un pesce; lungo i viali del parco uomini e donne, a spasso con il cane o con i propri pensieri, tenevano anch’essi il ritmo delle folate

   si posò vicino a un piccolo cane bianco che già conosceva; i cani erano proprio simpatici: lo vedevano perfettamente, come del resto vedevano una quantità di cose del tutto ignota agli esseri che se li trascinavano attorno… era il loro destino, sapere senza poter trasmettere la loro conoscenza tranne che tra loro e a pochi altri esseri a mezzo tra i mondi

   si salutarono con affetto
   “Ehi, guarda che ti chiamano!” lo avvertì il piccolo cane, che per parlare con lui si era distolto da un cespuglio particolarmente interessante
   “Allora è vero!” esclamò “Ma tu come fai a saperlo?”
   “Io sono un cane!” replicò l’altro “Sono abituato a sentirmi chiamare tutto il tempo, a proposito e a sproposito. Per te è una cosa nuova, eh?”
   “Ma tu capisci il mio nome?” per la prima volta provava una specie di ansia
   “No, non è proprio un nome, non ancora. Ma quella è l’ultima definizione, sai? e non è quella importante. Questo è un richiamo di appartenenza, è fondamentale. Prima o poi doveva succedere.”
   “Ma dove devo andare? Con tutto questo rumore io mi perdo…”
   “Beh, direi che oggi è il vento che dirige le cose. Quelli più portati dal vento mi sembrano quei due, laggiù, sulla panchina. Io andrei a vedere…”

   due innamorati: si stringevano teneramente, parlando una lingua armoniosa, un suono di felicità
   si avvicinò guardingo, il cane doveva essersi sbagliato: i due erano un cerchio perfetto, non c’era alcuno spiraglio nella loro comunione; accadeva spesso con quel genere di esseri, c’era abituato: emanavano un che di gioioso nel quale molte volte si era adagiato; poi se ne andavano, lasciando un vuoto immenso

   eppure… il richiamo davvero pareva venire da loro
   si avvicinò ancora… erano simpatici! lei teneva le mani aperte, come se volesse afferrare qualcosa…

   facilmente, senza strappi o fratture, si chiuse nel loro cerchio, cominciò a ruotare in esso, sempre più forte, e fu nel loro pensiero, nella loro anima, nel loro possibile futuro, non più lampo di un’iride, o sfumatura di petalo, o rugiada di nuvola…

   Forse, essere umano.                         





Questo racconto, che lei definisce sperimentale, è di Elisabetta Ferrari. Ha vissuto a Peschiera Borromeo sino al 2003, quando è arrivata a Varese. Sposata, un figlio, laureata in Lettere Classiche nel 2012. Considera la letteratura di ogni tempo il suo vero orizzonte interiore. Scrive poesie, racconti e testi per il teatro. Ha curato la regia di alcuni eventi culturali. 
   
         
  

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