ph carlozanzi
Il mendicante di Padova
di carlozanzi
Un
mendicante aveva dormito su un treno in rimessa, alla stazione di Padova. Il
primo sole dell’undici di agosto lo svegliò. Non aveva voglia di vivere ma lo
sapeva. Non si allarmò. Ascoltò l’ansia quietarsi poco alla volta, e intanto
pensò che doveva muoversi alla svelta, prima dei controlli della Polizia
Municipale. Indossava un paio di pantaloni color tortora, una maglietta bianca
a mezza manica e un maglione leggero a strisce multicolori, scarpe di cuoio
marroni, in testa capelli bianchissimi, corti, macchiati di sporcizia.
Mosse
i primi passi lungo corso del Popolo, già trafficato. Sentì caldo e sfilò il
maglione. Vicino alla Cappella degli Scrovegni e alla chiesa degli Eremitani
ebbe fame. In tasca aveva un euro e dieci centesimi, in una piccola borsa del
pane raffermo. Entrò da un panettiere, acquistò un euro e dieci centesimi di
pane, uscì e si sedette all’ombra, su una panchina nel parco, vicino alla
Cappella dove Giotto regalò il suo genio alla città, qualche secolo prima. Ebbe
sete, sapeva che avrebbe potuto bere ad una fontana pubblica lì vicino.
Pazientò. Guardando la vicina chiesa degli Eremitani, ricordò che era stata distrutta
nella zona dell’altare durante la seconda guerra mondiale. Erano stati gli
americani. Sentì che il sonno tornava, un sonno inquieto e liberatorio, una
morte anticipata che spesso aveva assecondato, per non sentire la fame e
l’angoscia. Quel giorno –era domenica- volle reagire, si alzò, andò alla
fontana, bevve, si lavò il viso, sentì la barba fargli il solletico sulle mani,
si incamminò lungo corso Garibaldi. Al caffè Pedrocchi, che si vantava di essere
il caffè letterario più grande del mondo, vide gente elegante seduta ai
tavolini, sentì profumo di caffè e di brioches. Un’invidia rancorosa lo
allontanò dalla zona, avrebbe potuto perdere il controllo. Superata l’Università
svoltò a sinistra e si portò sulla via del Santo. Quando era ancora distante
dal Santuario, che conservava le spoglie mortali di Sant’Antonio di Padova, si
sedette e allungò la mano. Dopo dieci minuti e nessun soldo raccolto pensò
fosse meglio cercare una zona d’ombra: la giornata sarebbe stata lunga, il sole
non dava tregua. La trovò avanti pochi metri. Ritenne più produttivo
inginocchiarsi, il capo reclinato in avanti, il palmo della mano proteso verso
la pubblica benevolenza. Non era capace di pregare. Non credeva in Dio. S’era
convinto che con lui la vita era stata ingiusta e che chiedere l’elemosina
fosse un suo diritto, un patetico e miserevole riscatto, ma assolutamente dovuto.
E ringraziava la sua forza d’animo, che gli permetteva di conservare quel
coraggio, giorno dopo giorno, centesimo dopo centesimo; sapeva che senza quella
volontà di sopravvivere sarebbe stato peggio, molto peggio. Sentì finalmente il
fresco e il peso di qualche moneta, ringraziò, promise preghiere a Sant’Antonio
e alla Vergine Madre.
Era
costretto a mutare posizione: in ginocchio, seduto, in piedi, di nuovo con le
ginocchia sul duro del selciato. Piegò in quattro il maglione e lo usò come
cuscino sotto le rotule. Verso le undici, mentre era in posizione seduta, si
addormentò. Quando il capo perdeva l’equilibrio e si sbilanciava verso destra o
sinistra, si svegliava; allora riposizionava la testa in posizione corretta e
chiedeva al destino, per pietà, di farlo riaddormentare, concedendogli il
beneficio della dimenticanza.
Verso
mezzogiorno si incamminò verso la grande chiesa, meta di pellegrinaggi
continui, instancabili, da secoli. Non sempre lo facevano entrare, anche se per
essere un barbone era decoroso, si radeva, si lavava, non puzzava, gli abiti
non erano indecenti. Gli consentirono l’accesso. Stavano celebrando una Santa
Messa. Mentre si incamminava verso la tomba di Antonio sentì il prete che
leggeva il vangelo: “….Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel
tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie
dei venditori di colombe…”
Una
lunga fila camminava lenta verso il sepolcro del frate santo, i pellegrini
accarezzavano il marmo, pregavano, acquistavano candele di varie dimensioni,
qualche moneta finiva anche in due raccoglitori con la scritta ‘Per i poveri’.
Andò dove sapeva di dover andare, da quel tal frate che, probabilmente, gli
avrebbe lasciato qualche denaro, prelevato dalle offerte destinate proprio a
lui, povero per davvero, senza lavoro, senza casa, senza moglie, senza figli,
senza Dio ma con fame, sete, sonno e desiderio di fare l’amore.
Era
domenica anche per lui. Giorno di festa. Il frate incaricato fu generoso, la
questua in chiesa, unita a quella raccolta lungo via del Santo, gli permise di
uscire e di andare, a passo svelto, in un panificio-pizzeria, dove comprò un trancio
di pizza e una lattina di birra chiara. Attraverso via Belludi arrivò in fretta
a Prato della Valle: la sua casa, il suo campeggio, il suo albergo diurno, il
suo giardino.
Trovò
una panchina libera, non all’ombra, e si accontentò: mangiò e bevve con calma,
non aveva impegni. Per dormire cercò una fetta d’ombra sul prato, precipitò
veloce dentro un sonno fondo. Fece sogni senza un senso, immagini e qualche
volto amico. Appena sveglio pensò che doveva procurarsi i soldi per la cena,
aveva già digerito il pranzo di metà giornata.
Non
gli andava di chiedere la carità in quel grande prato perimetrato da un corso
d’acqua, frequentato anche da molti giovani, per lo più squattrinati come lui,
universitari o extracomunitari.
Vide
un nero che si esercitava a mantenere l’equilibrio sopra una corda tirata fra
due alberi, altri suoi soci lo deridevano, lui cadde (solo pochi centimetri di
volo) e li inseguì ridendo: uno lo raggiunse e gli mollò un gran calcio sulle
natiche. Sorrise. Notò una donna sulla quarantina, grassoccia, accaldata, che si
riposizionava il vestito, incastrato nelle pieghe del fondoschiena sudato,
impigliato nell’elastico delle mutandine. Immaginò ciò che l’abito succinto
nascondeva.
Ripercorrendo
via Belludi tornò in via del Santo, stese la mano, molta indifferenza ma presto
anche qualche spicciolo: la cena ci stava. La consumò in Prato della Valle,
seduto sull’erba, all’ombra: il sole al tramonto era ancora forte, ingialliva
le cose e la gente. Quindi si diresse verso la sua solita fontana, pensando:
‘Mi rifaccio tutta la strada e dormo in stazione o trovo un buco più vicino? Sarà
una notte calda.’
Raggiunse
il suo bagno pubblico. Dalla piccola borsa recuperò un pezzo di sapone,
conservato dentro un panno: cominciò a lavarsi le mani, gli avambracci, il
viso, i capelli. Mentre cercava di togliersi un po’ di sapone bruciante finito
negli occhi, capì subito che quel turista, con La Coste rossa e Canon a
tracolla, lo avrebbe fotografato. Aveva la faccia del turista che fotografa
anche le merde dei cani. E invece no, passò oltre. E invece sì, eccolo a
distanza, con lo zoom, immortalare la sua doccia.
Si
voltò e gli regalò il suo culo spolpato.
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