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Un
indefinibile senso di pace
di carlo zanzi
Un
indefinibile senso di pace lo condusse a varcare il cancello di un parco
pubblico: una pace calata con la sera, sul finire di una giornata umida di
pioggia sottile, confezionata in carta di cielo grigio e asfalto lucido. Un
tempo ovattato e fastidioso anche per lui sino a quella serenità senza ragione,
nata come dono dopo pensieri ansiosi e consegne impellenti.
Entrò
nel giardino pensando come avrebbe dovuto comportarsi per non perdere quello
spazio di contemplazione quando la gente, noiosa, non parlava che della pioggia
e non faceva che imprecare alle rogne della vita. Capì che avrebbe dovuto
sigillare le pareti dei suoi pensieri, fissare il suo esistere dentro uno
spazio minimo, sloggiando tutto e tutti; un egoismo amorevole, che gli regalava
una inattesa felicità.
Zoommò
il suo futuro dentro un’immagine ancor più ristretta, un minimo orizzonte dove
focalizzare il suo sguardo. Finì per adagiarsi su un sempreverde e, mettendo a
fuoco, trovò un rametto che luccicava di piccole gocce. S’avvicinò. Qualche
altro passo. Tolse gli occhiali da miope, si dispiacque d’aver lasciato a casa
quelli da presbite. Osservò con un’attenzione per lui sconosciuta, lui abituato
a sguardi veloci e giudicanti, rapidi e distratti, presto dimenticati. Non
aveva fretta perché aveva annullato ogni impegno, grazie ad una dimenticanza
benevola.
Sottili
rametti verdi s’allungavano da un ramo marrone, dalle estremità penzolavano
gocce di pioggia, acqua minuta, troppo leggera per sciogliersi a terra in
pozzanghera. Ogni goccia conteneva un riflesso, parlava d’altro, rimandava al
mondo fradicio e silenzioso che apparteneva a quel grande parco cittadino.
S’avvicinò ancora sino a sfiorare i rami col naso. E pensò alla sua vita. In
bilico come quelle gocce, vive per assenza di vento o di dita che sfiorassero i
rami, bisognose di un altro, di una dipendenza, di un amore a cui legarsi per
non morire, cedendo alla gravità, alla terra, assorbite dal nulla. Appesa la
sua vita come un acrobata, uno scalatore in roccia, no, ancora più instabile,
meno prevedibile nel futuro, meno salda. Un esistere nella bellezza come
meravigliose erano le gocce, un bello in balia di prepotenze, disattenzioni,
parole vuote, sbuffi di rabbia capaci di far tremare un ramo, di scollare una
passione che cerca abbracci.
Lo
temeva e accadde. La pace durò pochi istanti, si incrinò disturbata da voci
lontane, da un fastidioso prurito al collo e da pensieri malandrini che s’infiltrarono
nella prima crepa e tornarono ad inquinargli la mente. Cercò di scacciarli ma
non vi riuscì, altri si diedero appuntamento dentro di lui: la vita vera tornò
coi suoi fastidi.
Per
rabbia avrebbe voluto schiaffeggiare quei rami, far pagare alle gocce di pioggia
il loro inganno. Si trattenne. Con l’ultima pace ringraziò, si grattò il collo
e riprese il cammino, puntando all’uscita.
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