Ieri Riccardo Prando, giornalista e narratore, si è recato nella bassa padana, terre di Giovannino Guareschi, per ritirare il premio, secondo classificato ad un concorso letterario dedicato al noto scrittore, con il racconto 'Ritorno a casa'.
Abbiamo il piacere di proporre il racconto premiato ai nostri lettori.
Ritorno a casa
di riccardo prando
(omaggio a GG e al racconto Il muraglione in
Don Camillo e il suo gregge)
Tra
il lusco e il brusco Peppone e don Camillo avevano lasciato la strada vecchia
che affiancava l'argine e s'erano incamminati per un viottolo laterale, in
mezzo alle gaggìe. Mancavano da troppo tempo dal paese e non volevano che
qualcuno, vedendoli arrivare dallo stradone principale, suonasse la grancassa e
desse fiato alle trombe. Meglio un'entrata da seconda linea, col favore della
semioscurità.
Ormai
da un paio d'ore Peppone fungeva da apripista e, mano a mano che le luci del
paese gli venivano incontro, aveva rallentato il passo di carica e procedeva
ora più lentamente, quasi che il ritorno a casa tanto desiderato fosse
diventato all'improvviso un obiettivo da allontanare nel tempo.
Dietro
di lui, a pochi passi, don Camillo ne seguiva le orme senza alzare lo sguardo.
Anch'egli era stato agli ordini di qualcuno, su in montagna, e non se la
sentiva di fare il comandante proprio adesso. In realtà, quella era una scusa
cui il primo a non credere era egli stesso: il suo cuore generoso di prete di
campagna palpitava all'unisono con quello non meno aperto di Peppone e, partiti
politici a parte, partecipava dell'identica malinconia.
Fatto
è che, pur continuando a camminare sempre più di mala voglia, il paese era
adesso ad un tiro di schioppo e fingere di non vederlo era diventato
impossibile da quando accanto a loro sfilava l'orto del Manasca: millecinquecento
quadrati di sterpaglia, con ortiche alte come pioppette, recintati da un
muraglione alto circa tre metri, una gran porcheria di sassi e rottami e malta.
D'altra
parte, una cosa è la guerra partigiana in montagna, un'altra è la lotta
politica in pianura e questo il compagno Giuseppe Bottazzi lo capiva bene: cosa
avrebbero detto lo Smilzo, il Bigio e gli altri della costituenda “Volante
Rossa” se lo avessero visto entrare in paese, dopo tanto tempo, fianco a fianco
con un rappresentante del partito clericale?
Preoccupazione
che viceversa non sfiorava nemmeno don Camillo:
- Compagno Peppone – gli disse quando furono ormai a
pochi passi dalla piazza – ricordati che se ritorni sano e salvo dai tuoi devi
ringraziare Qualcuno più importante di te!
- Reverendo – rispose Peppone senza scomporsi – vi
sembra il momento delle prediche? Ne riparleremo quando saremo tornati
borghesi!
- Quando sarai tornato borghese avrai il cuore ingombro
di mille porcherie e non ci sarà spazio né per le prediche né per i
ringraziamenti!
- Cosa volete dire, don Camillo? - chiese Peppone
arrestando la marcia e voltandosi di scatto.
- Voglio dire che dopo tanto correre è venuto il momento
di fermarsi, a meno che tu non abbia smarrito la coscienza su in montagna
-rispose calmo don Camillo, mentre gli occhi stavano puntando qualcosa un po'
più in là.
Preso
fra la paura di camminare troppo in fretta e il timore di farlo troppo adagio,
Peppone non s'era accorto di essere giunto all'altezza della famosa Madonnina
incastonata a un metro dallo spigolo verso la piazza. Una nicchia nello
spessore del muro, con una grata rugginosa che proteggeva una vecchissima
Madonnina pittura in fondo alla nicchia. Roba senza nessun valore artistico:
una Madonnina pitturata da un poveretto, ma da almeno due o trecento anni era
lì, e tutti la conoscevano e tutti l'avevano salutata un milione di volte e
tutti avevano infilato un fiore dentro il barattolo da conserva posato sulla
mensolina di legno.
Tutti,
compreso Peppone e don Camillo. Fin dai tempi in cui l'uno portava i calzoni
corti e l'altro il sottanone nero fresco di bucato. Peppone fece due passi in
direzione della nicchia e subito incrociò gli occhi della Madonnina.
- Fossi in te mi darei da fare a cercare dentro lo zaino
– riprese don Camillo, che s'era messo a raccogliere viole e margherite lungo
il fosso.
Peppone
si tolse subito il fardello che da due anni gli gravava sul groppone e ne cavò
la vecchia gavetta di alluminio; poi scese al fosso per riempirla d'acqua
fresca e la depose sulla mensolina di legno, giusto in tempo perchè don Camillo
vi infilasse i fiori.
- Sta meglio qui che in casa mia: meno ricordi si
portano in famiglia, minori possibilità ci sono di lasciarsi prendere dalla
malinconia – osservò Peppone mentre si toglieva il cappellaccio.
- Non è questione di malinconia. Gli occhi di questa
Madonnina hanno visto tutti i nostri morti. Davanti a questa immagine c'è la
disperazione e la speranza, i dolori e le gioie di due o trecento anni.
- D'ora in avanti ci saranno anche i nostri. Sia ben
chiaro, separatamente. Dolori e gioie del proletariato sono diversi da quelli
del clero e quando ci sarà la rivoluzione...
- … quando ci sarà la rivoluzione non potrai venire a
portare fiori davanti alla Madonnina perché la Madonnina non ci sarà più,
spazzata via dai carri armati di Stalin!
- Questo lo dite voi! I carri armati di Stalin sanno
quando è il momento di fermarsi!
- Anche davanti ad un metro quadro di pittura
scalcinata?
Peppone
sembrò riflettere sull'ultima domanda e, mentre don Camillo recitava un'Ave
Maria anche per lui, andò col pensiero a quegli ultimi due anni vissuti alla
macchia, tra i pericoli e le paure, alle tante volte in cui, non sapeva nemmeno
lui come, erano riusciti a salvare la ghirba. E davanti alle ombre dei loro
compagni rimasti in montagna per sempre, gli si inumidirono gli occhi.
- Però la malinconia resta - sussurrò Peppone
incrociando ancora una volta gli occhi della Madonnina.
- Amen -concluse svelto e calcando sulla voce don
Camillo, cui dopo tutto premeva non lasciarsi acchiappare nella stessa trappola
sentimentale.
Il
fiume scorreva lento da qualche parte lì vicino e anche lui sembrava pieno di
malinconia. Qualche anno più tardi, davanti all'avanzata inarrestabile del
progresso, avrebbe visto il paese adeguarsi alle leggi astruse
dell'architettura e il vecchio orto del Manasca sarebbe stato trasformato in un
palazzo di quattro piani. Roba da città, con un gran portico di trenta metri
sulla piazza e venti sullo stradone. Negozi, un caffè, un ristorante con
alloggio. Garage, servizi e via discorrendo. Una faccenda che aveva raddoppiato
l'importanza del mercato e fatto fare i cittadini a quei villani svirgolati.
E
nel tiramolla su che fine avrebbe dovuto fare la famosa Madonnina, l'avrebbe
vinta quest'ultima, naturalmente, salvata dal nuovo piccone demolitore e
incastonata, intatta, senza neppure una screpolatura, nel muro nuovo.
Vecchia di due o trecento anni, avrebbe fatto ancora la sua figura, quasi
fosse pitturata da due o tre giorni.
Un
salvataggio di fino, che nemmeno Peppone sarebbe riuscito a capire come avesse
potuto accadere. Forse perché, come l'altro di aver portato a casa la pelle,
umano e divino, ragione e fede si erano incontrati proprio in quel punto e
stretti la mano. E Peppone difettava, suo malgrado, un po' dell'una e un po'
dell'altra.
Però,
ogni volta che fosse passato là davanti, avrebbe pensato alla sua vecchia
gavetta con dentro i fiori di don Camillo. E anche don Camillo avrebbe
fatto lo stesso coi suoi fiori e la gavetta di Peppone. Due teste dure, se
hanno il cuore grande, sanno dove guardare.
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