domenica 19 maggio 2019

Ritorno a casa



Ieri Riccardo Prando, giornalista e narratore, si è recato nella bassa padana, terre di Giovannino Guareschi, per ritirare il premio, secondo classificato ad un concorso letterario dedicato al noto scrittore, con il racconto 'Ritorno a casa'. 
Abbiamo il piacere di proporre il racconto premiato ai nostri lettori.


Ritorno a casa
di riccardo prando
(omaggio a GG e al racconto Il muraglione in Don Camillo e il suo gregge)

Tra il lusco e il brusco Peppone e don Camillo avevano lasciato la strada vecchia che affiancava l'argine e s'erano incamminati per un viottolo laterale, in mezzo alle gaggìe. Mancavano da troppo tempo dal paese e non volevano che qualcuno, vedendoli arrivare dallo stradone principale, suonasse la grancassa e desse fiato alle trombe. Meglio un'entrata da seconda linea, col favore della semioscurità.
Ormai da un paio d'ore Peppone fungeva da apripista e, mano a mano che le luci del paese gli venivano incontro, aveva rallentato il passo di carica e procedeva ora più lentamente, quasi che il ritorno a casa tanto desiderato fosse diventato all'improvviso un obiettivo da allontanare nel tempo.
Dietro di lui, a pochi passi, don Camillo ne seguiva le orme senza alzare lo sguardo. Anch'egli era stato agli ordini di qualcuno, su in montagna, e non se la sentiva di fare il comandante proprio adesso. In realtà, quella era una scusa cui il primo a non credere era egli stesso: il suo cuore generoso di prete di campagna palpitava all'unisono con quello non meno aperto di Peppone e, partiti politici a parte, partecipava dell'identica malinconia.
Fatto è che, pur continuando a camminare sempre più di mala voglia, il paese era adesso ad un tiro di schioppo e fingere di non vederlo era diventato impossibile da quando accanto a loro sfilava l'orto del Manasca: millecinquecento quadrati di sterpaglia, con ortiche alte come pioppette, recintati da un muraglione alto circa tre metri, una gran porcheria di sassi e rottami e malta.
D'altra parte, una cosa è la guerra partigiana in montagna, un'altra è la lotta politica in pianura e questo il compagno Giuseppe Bottazzi lo capiva bene: cosa avrebbero detto lo Smilzo, il Bigio e gli altri della costituenda “Volante Rossa” se lo avessero visto entrare in paese, dopo tanto tempo, fianco a fianco con un rappresentante del partito clericale?
Preoccupazione che viceversa non sfiorava nemmeno don Camillo:
-      Compagno Peppone – gli disse quando furono ormai a pochi passi dalla piazza – ricordati che se ritorni sano e salvo dai tuoi devi ringraziare Qualcuno più importante di te!
-      Reverendo – rispose Peppone senza scomporsi – vi sembra il momento delle prediche? Ne riparleremo quando saremo tornati borghesi!
-      Quando sarai tornato borghese avrai il cuore ingombro di mille porcherie e non ci sarà spazio né per le prediche né per i ringraziamenti!
-      Cosa volete dire, don Camillo? - chiese Peppone arrestando la marcia e voltandosi di scatto.
-      Voglio dire che dopo tanto correre è venuto il momento di fermarsi, a meno che tu non abbia smarrito la coscienza su in montagna -rispose calmo don Camillo, mentre gli occhi stavano puntando qualcosa un po' più in là.
Preso fra la paura di camminare troppo in fretta e il timore di farlo troppo adagio, Peppone non s'era accorto di essere giunto all'altezza della famosa Madonnina incastonata a un metro dallo spigolo verso la piazza. Una nicchia nello spessore del muro, con una grata rugginosa che proteggeva una vecchissima Madonnina pittura in fondo alla nicchia. Roba senza nessun valore artistico: una Madonnina pitturata da un poveretto, ma da almeno due o trecento anni era lì, e tutti la conoscevano e tutti l'avevano salutata un milione di volte e tutti avevano infilato un fiore dentro il barattolo da conserva posato sulla mensolina di legno.
Tutti, compreso Peppone e don Camillo. Fin dai tempi in cui l'uno portava i calzoni corti e l'altro il sottanone nero fresco di bucato. Peppone fece due passi in direzione della nicchia e subito incrociò gli occhi della Madonnina.
-      Fossi in te mi darei da fare a cercare dentro lo zaino – riprese don Camillo, che s'era messo a raccogliere viole e margherite lungo il fosso.
Peppone si tolse subito il fardello che da due anni gli gravava sul groppone e ne cavò la vecchia gavetta di alluminio; poi scese al fosso per riempirla d'acqua fresca e la depose sulla mensolina di legno, giusto in tempo perchè don Camillo vi infilasse i fiori.
-      Sta meglio qui che in casa mia: meno ricordi si portano in famiglia, minori possibilità ci sono di lasciarsi prendere dalla malinconia – osservò Peppone mentre si toglieva il cappellaccio.
-      Non è questione di malinconia. Gli occhi di questa Madonnina hanno visto tutti i nostri morti. Davanti a questa immagine c'è la disperazione e la speranza, i dolori e le gioie di due o trecento anni.
-      D'ora in avanti ci saranno anche i nostri. Sia ben chiaro, separatamente. Dolori e gioie del proletariato sono diversi da quelli del clero e quando ci sarà la rivoluzione...
-      … quando ci sarà la rivoluzione non potrai venire a portare fiori davanti alla Madonnina perché la Madonnina non ci sarà più, spazzata via dai carri armati di Stalin!
-      Questo lo dite voi! I carri armati di Stalin sanno quando è il momento di fermarsi!
-      Anche davanti ad un metro quadro di pittura scalcinata?
Peppone sembrò riflettere sull'ultima domanda e, mentre don Camillo recitava un'Ave Maria anche per lui, andò col pensiero a quegli ultimi due anni vissuti alla macchia, tra i pericoli e le paure, alle tante volte in cui, non sapeva nemmeno lui come, erano riusciti a salvare la ghirba. E davanti alle ombre dei loro compagni rimasti in montagna per sempre, gli si inumidirono gli occhi.
-      Però la malinconia resta - sussurrò Peppone incrociando ancora una volta gli occhi della Madonnina.
-      Amen -concluse svelto e calcando sulla voce don Camillo, cui dopo tutto premeva non lasciarsi acchiappare nella stessa trappola sentimentale.
Il fiume scorreva lento da qualche parte lì vicino e anche lui sembrava pieno di malinconia. Qualche anno più tardi, davanti all'avanzata inarrestabile del progresso, avrebbe visto il paese adeguarsi alle leggi astruse dell'architettura e il vecchio orto del Manasca sarebbe stato trasformato in un palazzo di quattro piani. Roba da città, con un gran portico di trenta metri sulla piazza e venti sullo stradone. Negozi, un caffè, un ristorante con alloggio. Garage, servizi e via discorrendo. Una faccenda che aveva raddoppiato l'importanza del mercato e fatto fare i cittadini a quei villani svirgolati.
E nel tiramolla su che fine avrebbe dovuto fare la famosa Madonnina, l'avrebbe vinta quest'ultima, naturalmente, salvata dal nuovo piccone demolitore e incastonata, intatta, senza neppure una screpolatura, nel muro nuovo. Vecchia di due o trecento anni, avrebbe fatto ancora la sua figura, quasi fosse pitturata da due o tre giorni.
Un salvataggio di fino, che nemmeno Peppone sarebbe riuscito a capire come avesse potuto accadere. Forse perché, come l'altro di aver portato a casa la pelle, umano e divino, ragione e fede si erano incontrati proprio in quel punto e stretti la mano. E Peppone difettava, suo malgrado, un po' dell'una e un po' dell'altra.
Però, ogni volta che fosse passato là davanti, avrebbe pensato alla sua vecchia gavetta con dentro i fiori di don Camillo. E anche don Camillo avrebbe fatto lo stesso coi suoi fiori e la gavetta di Peppone. Due teste dure, se hanno il cuore grande, sanno dove guardare.

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