venerdì 2 ottobre 2020

Marco, 5 anni dopo


A cinque anni dalla morte di mio fratello Marco, mi piace ricordarlo così.
 

Il mio fratellino

 

Raccolgo di mio fratello Marco alcune immagini, partendo da lontano. Diciamo inizi anni Sessanta. Mi rivedo all’oratorio, la domenica pomeriggio, io che lo tengo per mano. E’ il fratello piccolo, devo dargli un occhio, sembra che io sia diventato l’ometto di casa (non so in base a quale criterio) e Marco va controllato. Anche perché non difetta di vivacità. Ma lui in oratorio si fa i suoi amici, io i miei. Tre anni di differenza, quando si è ragazzini, hanno il loro peso. Sempre in quegli anni rivedo i giochi in cortile, Marco non era ancora in squadra nelle partitelle a calcio sulle pietre tonde, forse fa da spettatore o gioca con altri nel piccolo prato (non più a nostra misura) circondato da una siepe, quartiere Garibaldi, fatto di sassi e di pini incarcerati entro un praticello e siepi alte. Giocava a nascondino con noi? Non ricordo, ricordo invece la pistola ad aria compressa Oklaoma, con pallini in plastica rossi. E’ il fratello più piccolo, quindi deve conoscere anche la mia versione sadica: arma in pugno lo minaccio, lo faccio scappare, attendo che sia ad una distanza tale da non fargli troppo male, e insieme la distanza che dà l’illusione di avercela fatta a mettersi al riparo, lontano dal nemico. Parte il colpo, cerco di prenderlo sulle gambe nude, tutti coi pantaloni corti a quel tempo, metà anni Sessanta. E quando lo colpisco lo vedo saltellare come un pollo e imprecare. Che fratello stronzo, avrà pensato Marco allora. Ridevo divertito. E’ possibile chiedere scusa, dopo cinquant’anni, per tanta infantile cattiveria? Se sì, lo faccio oggi.

Lo rivedo nelle nostre fantozziane vacanze estive, lo rivedo alla Varesina, società di ginnastica e scherma. Non mi ha mai impensierito come ginnasta, sapevo di essere più forte, diciamo pure il più forte dei quattro fratelli Zanzi in quello sport. Mi impensierì più in là, cresciuto, più alto di me di qualche centimetro (che rabbia!) decisamente migliore di me nel basket, ottimo anche nel calcio, nel volley, certamente una schiappa in bici, quando io già sommavo salite su salite. Diceva che in bici aveva freddo. E per stare allo sport me lo rivedo in tempi recenti, amante del cammino estremo, sino a Santiago de Compostela. Era il 2004, partì da solo, voleva mettersi alla prova, oltre ottocento chilometri e quella delusione a una decina di chilometri dalla cattedrale di Santiago: troppi i dolori, soprattutto quel ginocchio maledetto. Ha lottato ma ha dovuto cedere. Ci tornò l’anno dopo,  2005, insieme alla moglie Gabriella.  Sarò stato d’esempio io, con le mie maratone? Ricordo che venne alla maratona di Cesano Boscone, ottobre 1999, mi seguì in bici, forse lì pensò che sarebbe stato bello fare altrettanto, non di corsa ma a piedi. Mi piace pensare di avere contribuito alla sua ripresa agonistica, che si è concretizzata con la passione per la montagna, la vita solitaria del rifugio su al Pian delle Creste. Ma ancor prima una Stramilano di corsa. Già, quell’esperienza di guardiano di rifugio: io osservavo e un po’ allibivo, pur conoscendolo. E lui mi faceva partecipe. Eccoci allora insieme in salita verso il Kalberhorn o cima delle Vacche, mercoledì 20 agosto 2003, io tremante, impaurito sulla cresta (non passavo un bel momento), lui gagliardo, sicuro, passo lungo, pronto alla discesa, perché aveva un rifugio da gestire giù nella piana, sopra i duemila metri, in Canton Ticino, all’ombra del Basòdino. Era tornato atleta dopo anni di musica e poi di famiglia, con lo sport in secondo piano. E per stare allo sport un altro ricordo vivo, un grazie che gli devo. Avevo ripreso lo sci da fondo, siamo agli inizi del nuovo millennio e anche lui si era appassionato agli sci sottili. Fu lui a convincermi a partecipare ad un corso di aggiornamento di sci nordico a Chiesa Val Malenco. Sciavamo al lago Palù, luoghi d’incanto. E sciavamo con le nostre bimbe piccole, Caterina (mia) e Cecilia (sua). Ricordo un giorno a Splügen, eravamo solo noi, senza figlie: partì, non fui in grado di raggiungerlo, stava venti metri davanti a me, un vantaggio che non riuscivo a colmare, ci davo dentro ma lui andava più sciolto, più agile. Con lieve rabbia l’ho ammirato. E in quegli anni nasce anche il suo amore per gli animali, la gattina Tigretta e il cane Buddy, amico, compagno, diremmo (alla maniera di Mock) fratello del regno animale.

Ma torniamo indietro, alla musica. Ho capito subito che era un talento ma non mi interessava più di tanto: non cercavo confronti musicali, non mi sentivo offeso dalla sua bravura. E’ così fra fratelli, ci si aiuta ma soprattutto ci si spia. Poi sono cominciati gli anni dei capelli lunghi, Marco rientrava quando io mi alzavo, perché studiavo la mattina prestissimo. E’ sempre stato un tiratardi, non ci si incrociava. Devo ammettere, mi sono un po’ preoccupato negli anni in cui il fumo e l’alcol sono diventati suoi amici. Non che eccedesse, almeno per ciò che vedevo, ma senz’altro ha fatto preoccupare mamma e papà, che non approvavano quella sua vita lievemente disordinata, poco incline agli studi e più incline ai dischi in vinile, poi ai nastri registrati, poi alle cassette.

La sua abilità nel banjo mi è subito parsa fuori dal comune e mi chiedevo: ‘Ma come diavolo fa a suonare così? Tutto a orecchio? Senza studi?’

Mi rivedo poi su quella spiaggia di Porto San Giorgio, estate 1978: io avevo finito l’ISEF, lui aveva conquistato la maturità all’ITIS. Eravamo tutti in vacanza, in tenda, la nostra famiglia riunita, due macchine, la 850 bianca (ogni 100 km bisognava fermarsi per aggiungere acqua al radiatore) e una Renault, prestata da Giovanni Ravasi, nostro cugino. Papà e Paolo rientrano prima, noi restiamo, il desiderio è di andare a Roma per l’incoronazione di Papa Giovanni Paolo Primo, papa Luciani. Papà telefona da Varese: “Ragazzi, qui abbiamo due cartoline rosa, una per Carlo e una per Marco. Mi sa che devono partire per il militare.” Insieme, stesso giorno di partenza, settembre 1978, per destinazioni diverse, io Merano e lui Cuneo. E che dire del nostro incontro a Bassano del Grappa, in abito grigioverde? 

Subito dopo, settembre 1979, io, Marco, mamma e papà seduti, a discutere del suo futuro. Non gli andava di fare l’operaio a vita, ha espresso il desiderio di fare anche lui l’ISEF e mamma scrollava il capo, guardando anche me: “Ce la farà? Voglia di studiare non ne ha molta….” Non ricordo cosa dissi, certo fui conciliante e immagino presi le sue difese. Che bella soddisfazione per Marco dimostrare che era adatto anche all’ISEF e all’insegnamento. In quel momento ha però seppellito le sue residue possibilità di fare l’artista di professione, il musicista di mestiere. Non se l’è sentita di rischiare così tanto, soprattutto in Italia, dove i musicisti devono studiare. “Negli Usa sarebbe stato diverso” mi confidò.

Poi nel 1981 io mi sono sposato e l’ho perso di vista per qualche anno, gli anni della sua avventura con la Signora Stracciona, perché la musica batteva dentro, non riusciva a mollarla. Eppure no, è riuscito a lasciare anche quella, per un po’, quando sono arrivate la moglie Gabriella, la primogenita Marta e qualche debito da pagare, causa ristrutturazione della casa. Marco vende tutto, e io a considerare: “Un po’ radicale come scelta.” Ma Marco è così, niente mezze misure, o tutto o nulla, o bene o non si fa, o al massimo o non si parte nemmeno. Così via chitarra, banjo e si parte per una nuova avventura, con una promessa: ‘Appena possibile riprendo gli strumenti, e anche migliori di quelli venduti.’ Mio fratello non è totalmente felice, ha momenti di malinconia, sente di possedere talenti inespressi, ha bisogno di gratificazioni, di un suo pubblico, di applausi. Come lo capisco. E allora via, si riparte, si riacquistano gli strumenti (la prima è una Martin, 2 gennaio 1991), il computer aiuta, i Byrds, Ron Martin, gli Usa, la musica country, la Piedmont Brothers Band. Finalmente Marco esplode, si sente libero di rischiare, le figlie sono grandi, il lavoro è sicuro, si può correre. E’ a questo punto che il mio interesse su di lui, lui artista, musicista di talento, si fa più attento e puntuale. Capisco che va seguìto, lui invoglia ad andargli dietro, ci rende partecipi, cerca il nostro applauso, ne ha bisogno perché la musica sta diventando la sua vita, la sua aria nuova, la sua gioia più intensa.

Di Marco colpisce, fra l’altro, la radicalità. Come quella volta, agli inizi degli anni Novanta, con Mesùd. Dramma della ex Jugoslavia, fratelli della Bosnia che scappano, qualcuno arriva a Varese. Mesùd dalla Bosnia corre ai nostri semafori, lava i vetri, chiede mille lire. Marco lo incontra, scatta qualcosa dentro, il rischio di una generosità più evangelica: “Perché non vieni a mangiare un panino a casa mia?” Mesùd diventa suo fratello. Farà in modo che trovi un lavoro, farà arrivare anche la sorella Merìma.

Questo è Marco. E così nella musica. Non una ma più chitarre, non un solo strumento ma polistrumentista, non un disco ma dischi a raffica, e viaggi negli Usa, una casa che si apre per accogliere i nuovo fratelli musicisti, in particolare bro Ronald Martin detto Ron, cofondatore della Piedmont.

Questo è solo un riassunto, una folata di vento che porta pulviscolo di ricordi. Vado di fretta perché la vita va di fretta. Piccoli frammenti di una vita d’artista. Immagini strappate alla dimenticanza che avanza.     

E quando Marco sta volando, ha finalmente aperto le ali e sta vivendo emozioni nuove, intense, ecco una nuova caduta. Questa volta molto dolorosa. Una botta che avrebbe azzoppato i più. Perché Marco non è stato esente da sofferenze, compresa la depressione, ma un tumore no. Mai. E un tumore così pesante. Una condanna.

Maggio 2013, una festa di Prima Comunione in famiglia rovinata da un dolore insistente. La visita, le prime paure, le conferme, un 25 giugno (anniversario di nozze di Marco e Gabriella) vissuto nell’incognita di un’operazione pericolosa, essenziale per la sopravvivenza.  Eppure Marco, già qualche giorno prima di quel ricovero, e poi dopo, sempre, non minimizza ma tranquillizza: “Voglio affrontare questa prova con dignità.”

Due anni sono lunghi quando si soffre, l’attesa degli esiti logora, le cure debilitano, la rabbia dovrebbe crescere, la lontananza da Dio avrebbe più di una ragione: “Dove è scappato il Padre buono?” Marco pare invece rialzarsi con rinnovato slancio ogni volta, con altre razioni di speranza. Con lui lotta Gabriella, una presenza essenziale, meravigliosa. La coppia dimostra ogni giorno cosa vuol dire amarsi nella gioia, ma soprattutto nel dolore. E tutti noi guardiamo con stupore. Guardiamo il coraggio di Marco nel confessare il suo male, nel rendere pubblico il suo dolore e la sua fede. Io lo guardo ammirato. Io che, al suo posto, mi vedo ringhioso e affranto, schiacciato in un angolo, solo nella protesta, lontano da Dio. Marco, nei momenti di pace, di assenza di dolore, crea musica, coinvolge amici, pubblica dischi, organizza concerti, prepara una tournè italiana ad una ex stella della musica statunistense, vola in Colorado, poi accoglie a casa sua Ron e Doug (storia recentissima, estate 2015), programma. In una parola non vivacchia ma vive, non cammina e nemmeno corre: vola.

Marco: un generoso. Con me e con tanti altri. Come posso dimenticarmi il regalo del Natale 2014? Sapeva che mi stato appassionando alla musica da lui amata, in particolare a Mary Chapin Carpenter. Me lo sono visto arrivare la vigilia di Natale: “Non è detto che ci sia il prossimo Natale…” e mi ha allungato una scatola: conteneva la maglietta blu con la scritta ‘Marco Zanzi, Time to start again-Time to fly again’, e in aggiunta tutta la discografia di Mary Chapin Carpenter.

Questo era Mock, che si merita sino all’ultima virgola questo libro, soprattutto per ciò che è stato in grado di dimostrarci a partire dalla fine di maggio di tre anni fa, inizio di una vita rinnovata.  

1-continua

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