mercoledì 17 giugno 2015

Il racconto del mercoledì

                                                                                                  ph emmezeta



Come sono felice
di carlozanzi

Sono vecchio. Quindi triste perché malmesso, dolorante, prossimo alla morte. Plutarco ci ha lasciato questa frase, che ho scoperto pochi giorni fa: “La morte di un giovane è un naufragio, quella di un vecchio è l’approdo in un porto quieto.” Non sono d’accordo. Almeno la mia vita non dice questo. Sono senza idee e senza progetti, eppure non voglio morire. E di quieto c’è solo, ai miei occhi, questo lago: sempre più vecchio, sporco d’alghe. Dai pori della sua buccia sfiata un cattivo odore. Eppure sono qui, seduto su un grosso masso, il località Schiranna, parco ‘Luigi Zanzi’. Davanti a me le cannette, sottili canne d’organo ritte al cielo, perché non c’è brezza. Qui ho imparato a pescare. Avevo tredici  anni, l’età delle prove: la pesca e le prime sigarette. Le rubavo a mio padre e me le fumavo in perfetta solitudine; un godimento puro quel silenzio e quel fumo. Presto ho imparato a non tossire, a ingoiare la nebbia calda, ad apprezzarne il sapore. Sì, ma oggi la Schiranna non mi interessa, perché i miei occhi nuotano a pelo d’acqua e sono subito là, sulla riva opposta, fra le cannette di Galliate Lombardo. Dicono che ai vecchi viene il mal di collo, a furia di guardarsi indietro. Non hanno ancora capito che in verità i ricordi sono il ponte sul quale camminiamo, passo dopo passo, ponte che ci permette di valicare il baratro di un futuro che non c’è più. Ponte che oggi mi conduce, appunto, a Galliate. Perché ho voglia di strappare un sorriso a queste mie labbra dritte e secche. Voglio ripensare alla storia dei fratelli Borri, Gionata (alto e magro), Paolo detto Pollo (più basso e robusto), gemelli diversi, in tutto. O quasi. Gionata più riflessivo, Pollo più ruspante. Si rassomigliavano nel rendimento scolastico (non buono per entrambi) e per la maestria nella pesca. Si muovevano con canna, filo, ami, galleggianti, esche come farebbe un giocoliere, abile con dieci palle, se dovesse lanciarne in aria due soltanto. E lo facevano fra cannetta e cannetta, evitando pozze e fango da sabbie mobili. Mai che l’amo si impigliasse nella vegetazione, che si ingarbugliasse la lenza, che dovessero imprecare alla perdita di tempo, dovuta agli incidenti che tanto deprimono il pescatore, soprattutto se accanto a lui –intento a riparare la lenza- un altro butta pesci nel cestino. E lui sapeva che i fratelli Borri lo invitavano nella loro fattoria di Galliate, lo invogliavano a fare con loro una battuta di pesca anche per vendicarsi delle frustrazioni patite a scuola. Però ci andava, volentieri. In bici, la canna legata alla canna, il cestino a tracolla, euforico per la visione di pesche miracolose, in discesa giù per il muro di Cartabbia e poi il piano, sino a Galliate. Sapeva che il ritorno sarebbe stato penoso: cestino semivuoto e quella salita, a rendere ancora più infuocata la sconfitta. Lo sapeva ma insieme se lo dimenticava, testardo nell’ottimismo come la morte, testarda nella sua odiosa ripetitività. Ma quel giorno, quell’afoso mercoledì pomeriggio, ventidue maggio millenovecentosessantanove, le cose andarono diversamente. E per fortuna che ci sono certe giornate; rendono giustizia alle tristezze, che non risparmiano neppure i ragazzi. Tutto come sempre: i due Borri scattanti come cavallette, scovavano inattesi e pescosi anfratti fra le canne, evitando il fango più alto. “Tel chì, l’è n’altar gubìn…sa l’è bell!” diceva Gionata. “Il solit culatùn” diceva il Pollo. “Ma specia ‘n mument…dasi dasi….senza pressa….e mo’ tira su….tela chi ‘na bela scardula…” E lui, a qualche metro di distanza, finito nella mota, con già tre punture (due tafani e una zanzara) e due lenze regalate al lago, a dire: “Bravi….siete bravi…per forza, è casa vostra…” ma col pensiero era già oltre. Aveva scovato una radura che giudicava promettente. “Non andare di là, che ci sono le sabbie mobili” gli urlò sulla schiena Pollo, ma fece finta di non sentire. Ci arrivò, cagnotti sull’amo, due, uno trafitto da capo a coda, a coprire tutto il metallo, e l’altro a penzolare, preso per il collo, affinché si muovesse in acqua e attirasse la preda. Poi la premonizione. Ma con un amo così piccolo e un filo così debole, se (per culo, dico per culo) abbocca un luccio, spacca tutto e allora non reggerei….Così fece, per una volta, ciò che non faceva mai: rischiare. Perse dell’altro tempo cambiando filo, amo, galleggiante, esca, un lombrico succoso, che imprecava alle punture dell’amo attorcigliandosi e gemendo in silenzio. Poi il lancio e l’attesa, mentre i due Borri seguitavano a scambiarsi frasi nel dialetto di Galliate, che lui ben conosceva, perché simile al bosino di città. Non erano ancora le quattro quando il suo galleggiante partì come un siluro. Fece quello che un pescatore non dovrebbe mai fare, tirare subito con veemenza, vinto dall’euforia della cattura. Lì ci vuole quiete e pazienza, sangue freddo e un bel respiro. Lui no, ma nel suo caso fu una fortuna: perché se il persico trota (meglio noto come boccalone) fosse riuscito a inabissarsi e a nascondersi in mezzo alle canne, da lì non lo si tirava fuori più. Invece riuscì a bloccare la sua fuga, l’amo fortunatamente trovò appiglio nella grossa bocca del pesce, che iniziò la danza della morte, un agitarsi doloroso che un pescatore, crudelissimo, legge solo come puro piacere, estasi da conquista. Non urlò. Muto. Si trattenne, incredulo e voglioso di non far sapere nulla ai due, che sarebbero subito accorsi, aiutandolo nel recupero della bestia e portando a casa un po’ di vittoria. Silenzio, solo il rumore dell’acqua agitata, solo il verso degli schiaffi che il persico dava all’acqua del suo lago traditore.
I Borri sentirono quel tramestìo, lo tradussero come il suo solito impaccio, dissero uno svogliato: “Ora veniamo…” e si prepararono a porre rimedio alla sua inesperienza.
Lo trovarono ritto in piedi, la canna nella mano sinistra, il filo nella destra, e sotto la mano l’enorme pesce; sfinito, dava gli ultimi colpi di vita, salutando con la pinna caudale.
“Cazzo, che bucalùn!” disse il Pollo.
‘Cazzo, come sono felice’ pensò lui.

                                      

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