mercoledì 15 settembre 2021

Il Venezia


 Questa foto, apparsa su fb grazie alla passione del mio amico Fausto Bonoldi per la storia della nostra Varese, che mostra il cantiere del Palazzo del Sole a Biumo Inferiore, e che permette di vedere anche la vecchia Area Cagna, mi ha riportato ai miei anni biumensini (1961-1981) e alle storie di quella castellanza, compreso il Venezia, al quale dedicai anni fa un raccontino che oggi, giornata un poco uggiosa, ripropongo.


Il Venezia

 

Ma perché mai un lettore dovrebbe perdere il suo tempo, leggendo questo breve racconto? Subito detto: per incontrare il Venezia. E per incontralo non avete che me. Lui, il Venezia, nulla ha lasciato di scritto, niente immagini televisive, niente registrazioni audio. Solo il sottoscritto, con la traballante potenza del suo ricordo. E perché proprio il Venezia merita un racconto? Perché era un  buono, e se ci teniamo ad impratichirci in questa qualità morale, allora ci farà bene sapere di lui.

Il Venezia…mamma mia, se ci penso sento ancora in pancia l’emozione per quel suo gesto elementare e stupefacente. E vedo soprattutto la sua di pancia, prominente dentro una tuta da meccanico, ventre che ancor più evidenziava l’unto da meccanico. La tuta era blu carta da zucchero, con macchie di grasso e nera sull’addome, dove preferibilmente si sfregava le mani. Un baschetto anche quello blu e un negozietto in fondo alla via, un locale unto e bisunto ricavato dentro un palazzotto cadente. Fra il suo negozio e il mio quartiere stava, nel mezzo, centralità del sapere, la mia scuola elementare.

Riparava biciclette e motorini il Venezia, ma il lavoro non era tanto nemmeno allora, dato che il suo addome esagerato spesso sbucava dalla soglia del negozio, a dire che non si stava ammazzando di fatica. Però qualcuno si lamentava che le riparazioni le eseguiva con calma, al limite del tempo massimo.

Perché lo chiamavamo il Venezia lo si sarà capito. Allora usavamo quel termine per due categorie di individui: quelli che giocando al pallone non passavano mai la sfera (ma non era il suo elenco) e quelli come lui, emigrati dal Veneto in cerca di lavoro, quasi subito costretti a spartirsi il pane con i fratelli del meridione d’Italia. Due povertà che trovavano nella mia città del cibo, un lavoro e aria senza troppi inquinanti.

Ma la faccio breve, perché ciò che conta è quel gesto, quella scelta, quel sorriso tagliato dentro una faccia grossa e rossa come un’anguria divisa a metà, con quella coppola che lì in alto soffriva di vertigini e pareva sempre sul punto di cadere. Perché il Venezia, come molti veneti, era alto di statura.

Dio mio, se ripenso a quei tempi…già, ma non cado nel tranello, erano belli perché era bella la giovinezza: tutto qui. Ma stiamo al riparatore di bici. Avevo sette anni, seconda elementare e una bici  non adeguata: io non ero un gigante, ma quella bici era da nani. Mi accontentavo perché mi portava per il cortile di sassi dove volevo, e se tiravo coi pedali sentivo l’aria in faccia e mi pareva di andare veloce. Non ero prudente, e come ogni bimbo sopravalutavo le mie abilità e sottostimavo i rischi. Le mie ginocchia parlavano chiaro. Ma quel giorno si fece male anche lei, la bicicletta. Una curva mal condotta mi buttò contro lo spigolo del palazzo e a terra. Non piansi perché avevo una compagna di scorribande, si chiamava Patrizia, mi piaceva e qualche volta riusciva a stare al mio passo. Non quel giorno. L’avevo staccata inesorabilmente. Fu brava Patrizia, non rise di me. Avevo sangue e abrasioni, ma soprattutto una bici con il manubrio storto e un cerchione che toccava sulle forcelle.

“Mia mamma mi ammazza” dissi a Patrizia.

“Perché non vai dal Venezia? Se vuoi ti accompagno” disse Patrizia.

Mi parve una follia. Avessi dato seguito a quel piano e fossi stato scoperto, sarebbe intervenuta anche la furia di mio padre. Ma c’era Patrizia con me.

“I tuoi ti lasciano uscire dal quartiere?”

“No” disse la ragazzina.

“Nemmeno i miei.”

“Andiamo” e Patrizia mi prese per mano.

Cercai per un tratto di mantenere l’estasi della mano di una ragazza e il trasporto della bici, ma fui costretto a sganciarmi. Il trasporto mi obbligava ad usare entrambe le mani, sollevando la ruota anteriore che non girava.

Il Venezia era là, con la pancia di fuori e la Nazionale senza filtro che pendeva dalle labbra, la barba di tre o quattro giorni e il sole basso negli occhi.

Ovvio che non ricordi esattamente le parole di quel breve dialogo. Vado con la memoria, con la fantasia, cercando di tradurre un sentimento e quel poco che ricordo di quella faccia simpatica.

Mi vide e disse: “Ti conosco…tuo padre non è quello che abita al quartiere?”

Dissi di sì, sapevo che conosceva il mio vecchio (vecchio di adesso), non ero sicuro che si ricordasse di me.

“E questa ragazzina? E’ la tua fidanzata?” chiese il Venezia.

“Sì” rispose Patrizia.

Secondo me non era vero, non so perché lo disse, non fu mai la mia ragazza, forse in quel momento le andava di fare la grande, la già impegnata con un ragazzo che, diciamo la verità, non era il peggio del quartiere.

“Vieni qua” disse il Venezia, notando i miei graffi e la bicicletta. “Non c’era nessuno in casa?”

A me le bugie uscivano a rilento, per questo Patrizia prese di nuovo la parola: “Nessuno, allora abbiamo pensato di venire da lei.”

“Bravi….qua ti pulisco un po’” e mi fece entrare nel negozio, un antro senza luce, sporco. Sapeva di ferro e di grasso, irranciditi dalla muffa. “Siediti lì.”

Le parole del Venezia dovete immaginarle con inflessione veneta,  sporcate con qualche frase in dialetto stretto, che non capivo.

Fece finta di lavarsi le mani con un pezzo di sapone da bucato annerito dal grasso, dentro un lavandino di metallo piccolo piccolo, con un rubinetto dalla manopola a forma di fiore. Prese dell’alcol e del cotone idrofilo e mi disinfettò alla meglio.

“Sua mamma lo ammazza” disse Patrizia, indicando con la mano e lo sguardo la bici contorta.

“Certo che lo so” disse il Venezia, che si mise all’opera e raddrizzò manubrio e cerchione con una sveltezza che non immaginavo.

La bicicletta era in ordine e avevo conquistato Patrizia. Almeno di questo mi illudevo, dopo aver salutato, ringraziato ed essere risalito in sella, per non farmi staccare da lei.

In realtà non avevo conquistato una ragazza, avevo forse capito che comandano le donne, e anche il mio procedere dietro Patrizia, verso casa, diceva di una certa sottomissione. In verità ero stato conquistato dal Venezia. Ma l’avrei capito molti anni dopo.

Patrizia me la sono dimenticata, lui no. Il ricordo del suo sorriso buono credo mi abbia salvato dagli eccessi di cattiveria e di egoismo, permettendomi di mantenere un sufficiente livello di buona creanza. Oggi, che so quale gioia si prova a far contento un bambino, riparandolo dalla violenza degli adulti, posso leggere sino il fondo quel sorriso, tagliato dentro una faccia rubiconda e sporca, grande e rotonda come una rossa anguria, divisa nel mezzo.      

 

 

 

    

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