martedì 12 maggio 2015

Il racconto del mercoledì



DAL TRENTESIMO CHILOMETRO
di carlozanzi

Quando gli venne l’idea sentì caldo al cervello, una vampata sul viso e il cuore in estasi. Poteva essere lì: dal trentesimo chilometro. Quello il punto.
Che avesse intenzione di partecipare all’Expomarathon Varese era una scelta già fatta, sebbene anni addietro avesse promesso a  se stesso che non avrebbe mai ritentato una maratona. Allora aveva quarant’anni e si poteva fare: prima la maratona di Venezia, tre ore, quarantatré primi e dieci secondi, poi quella di Roma, anno Duemila, maratona del Giubileo, tre ore, ventinove primi e trentadue secondi. In seguito la malattia del running era passata, la virulenza da fatica si era attenuata e si era rappacificato col mondo: basta gare. Quindici anni dopo gli vanno a sbattere in faccia una maratona proprio nella sua Varese. Una tentazione. Si era iscritto e anche moderatamente allenato. L’intento era di arrivare al traguardo, nulla più: già molto per un sessantenne, arrivato a quell’età né carne né pesce, né adulto né vecchio, già molto avanti, si direbbe con un piede nella fossa ma l’altro ancora ben ancorato alla terraferma. Età di tremarella. E ora questo pensiero distorto e vigliacco: sì, al trentesimo chilometro.
Venne il giorno, l’ora, il mese, una domenica di luglio con il cielo bianco lattiginoso, afa già alle sei del mattino, pappataci,  zanzare e gamberi rossi della Louisiana anche loro col pettorale lungo la ciclabile del lago di Varese, terreno della corsa di quarantadue chilometri e centonovantacinque metri.
Partì che era già sudato, li lasciò sgambettare in avanti, quelli più giovani ma anche quelli più vecchi, in fregola come i gobbini di quel lago marcio, bello solo da lontano. Partenza e arrivo in località Schiranna, un percorso assolutamente piatto, con toccata e fuga anche dalle parti del lago di Comabbio. In principio dovette combattere contro il desiderio di aumentare il passo, ma non fu troppo complicato stare buono, controllare la foga. Dalle parti di Gavirate arrivò un inatteso dolore al ginocchio destro, che lo costrinse a rallentare, a zoppicare, a temere problemi al menisco. Già a Biandronno il dolore si era sciolto ma il respiro non funzionava. ‘Quest’afa mi farà asfissiare’ pensò, raccogliendo un bicchierino in plastica contenente del liquido arancione. Gli spugnaggi erano frequenti, necessari. Notò, con soddisfazione, i primi ritiri. Passò anche un’ambulanza, ma a sirene spente. A bordostrada applaudivano e incitavano gli spettatori di quella maratona nostrana, senza tradizione, improvvista per dar sfogo ad alcuni quattrini del vicino Expo meneghino, finanziamenti ottenuti con la promessa di una corsa ben organizzata, che avrebbe propagandato la necessità di un’alimentazione equilibrata, sostenibile, indispensabile per i successi sportivi. Lui fame non ne aveva, piuttosto cenni di nausea: anche perché si stava avvicinando il trentesimo chilometro, la linea di demarcazione da tutti temuta, l’inizio della fatica vera, della lenta, inesorabile, malandrina vittoria della sofferenza e della testardaggine. Ma lui, da lì, aveva in mente ben altro. Così partì, non di scatto ma in allungo costante. Ormai ne era convinto. Perché attendere la morte nel proprio letto? Costretti ad assistere, oltre che al proprio, tragico destino di disfacimento, anche allo spettacolo dei parenti in piedi o seduti, forse persino da consolare? E se gli fosse capitato in sorte di dover assistere a quel falso cordoglio, a quella finta sofferenza da dipartita, che gli avrebbe detto spudoratamente e infallibilmente: ‘Guarda, non sei stato capace nemmeno di creare empatia. Non sono realmente tristi per la tua morte. Sono imbarazzati, vorrebbero non dico fregarsi le mani e nemmeno ridere, ma sostare nella loro comprensibile indifferenza. In fondo che hai fatto per meritarti le loro lacrime? Il loro sincero dolore?’ Via via, darsela a gambe, correre sino a far salire il cuore a duecento, anche di più, correre sino al traguardo senza alcun controllo, precauzione, sfidando le leggi dell’età e della resistenza dei tessuti, correre sfiorando i quattro al mille, addirittura  i tre e trenta, così, per gli ultimi dodici chilometri e spegnersi dopo il traguardo, non prima, morte da eroi.
Il cuore rombava, cavalcava, la gola non aveva più saliva, la lingua era secca come un peperoncino, i muscoli delle cosce duri come il marmo di Candoglia ma lui non mollava. Aspettava solo il colpo fatale. Ma sì, anche prima del traguardo, a quel punto cosa importava? Bastava ottenere lo scopo. Poi cominciarono i sorpassi. Allibiti, i concorrenti vedevano sfrecciare il sessantenne con un ritmo degno di coloro che erano partiti davanti, nella categoria atleti professionisti. Più d’uno pensò che quel tale, con un fisico così così, si fosse inserito nel gruppo poco prima, percorrendo da gasato gli ultimi chilometri, un baro degli applausi, un invasato che s’accontentava di costruirsi una realtà tutta sua. E invece lui aveva nelle gambe già oltre trentacinque chilometri e ora svoltava a sinistra, dalle parti della rotonda di Capolago, quella con l’Aermacchi MB 326 arancione nel mezzo, gloria dell’aeronautica varesina.
Correva e ansimava, paura, dubbi e quando la certezza della scelta si imponeva il ritmo aumentava, i sorpassi si susseguivano, la meraviglia degli altri s’accentuava. Quando transitò alla rotonda dei Ronchi una nuova idea: perché non uscire dal gruppo? Svoltare a destra, passare la rotonda, prendere la salita dei Mondiali di ciclismo, arrancare sul pendio rendendo più probabile il collasso? L’infarto? Andarsene in solitudine, accasciato vicino ad un ciliegio o altra pianta da frutta dei casbenàtt? Si convinse, lasciò la ciclabile, prese la rotonda ma anziché tenere la destra completò il giro e tornò fra i maratoneti sfiancati, rubizzi in viso, claudicanti. Via, via, correre al massimo, sino alla fine: si vide paralizzato su una carrozzina, reso inabile dalla vecchiaia, obbligato a farsi nettare il culo da una mano che non fosse la sua, e così diede nuovo vigore alla corsa.
Ora stava davvero male. Ma sarebbe stato possibile dar sfogo alla volontà, alla tenacia sino al punto di crollare esausto? La mente l’avrebbe tradito, obbligandolo a diminuire il ritmo? L’istinto di sopravvivenza lo avrebbe infine convinto? Ma avvenne un fatto, al di là della mente e dell’istinto: un’immagine inattesa, parole fresche, occhi luminosi, minute mani levate al cielo, labbra aperte nel più convincente dei sorrisi. E ciò capitò dopo il cartello dell’ultimo chilometro.  A quel punto la ciclabile svoltava a sinistra e correva verso il lago, tagliando nel mezzo un vasto prato, quindi una curva a destra e puntava decisa verso la Schiranna. Proprio sulla curva a destra notò una giovane donna che teneva in braccio una bimba di pochi anni. La vista annebbiata rendeva tutto confuso, ma correndo come un indemoniato arrivò subito al dunque.
“Bravo, nonnino, bravo….nonno mio!”
La figlia e la nipote di nemmeno due anni erano accorse al suo capezzale. Notando l’entusiasmo di quella vita appena scartata si sentì il più pirla fra gli uomini. Si fermò, prese fiato, accolse la bimba fra le braccia, la mise a terra e camminando con lei si portò verso il traguardo. Lo superò, prese in braccio la nipotina e la baciò. Nel prenderla in braccio vide l’orologio e bloccò il cronometro: tre ore, trenta primi, quindici secondi. Senza quella sosta avrebbe stabilito il suo record personale.






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