PICCHIO
IL PUGNO
di carlozanzi
Mi
guardo le mani, appaiate. Stringono il manubrio, fra pollice e pollice dieci
centimetri. Oltre le nocche delle dita i fili dei freni si incrociano, più in
basso dieci millimetri di copertone strisciano sulla terra, l’asfalto corre
indietro, spintonato dalla ruota sottile. La salita è già pesante ma
sopportabile. Ho nelle orecchie la sua musica. Picchio un pugno sul metallo, il
pugno destro, la bici barcolla, devo mettere il piede a terra per non cadere
come un fesso. Mi fermo, riparto ma ora sono costretto a salire sui pedali, le
mani stringono le corna del manubrio da bici da corsa, i piedi ruotano sotto di
me, la strada riprende a scapparmi via, verso la valle. Io guardo alla galleria
della funicolare, lontana. La pendenza s’inasprisce. Osservando le case sul
colle, il campanile ben saldo, quell’immagine da presepe, prego. Torno a sedermi
sul sellino, di nuovo le mani si avvicinano, pedalo con eleganza nonostante la
rabbia. E la preghiera cambia direzione, non è più supplica ma pretesa. Lo si può
fare quando si domanda una cosa soltanto. Non si chiede la luna, il sole, la
gloria degli uomini, la ricchezza e magari insieme la felicità, una bella donna,
dei figli che ti sono riconoscenti per averli messi al mondo, nipotini come
quelli delle pubblicità, e aggiungiamoci anche una lussuosa villa al mare, uno
chalet sulle Dolomiti, la salute e una bici da diecimila euro. Così sarebbe
chiedere troppo. Che pretenzioso che sei! Tutto per te? Non lasci nulla agli
altri?
Una
cosa soltanto ma precisa, circostanziata, chiara, come quella parola evangelica
che non lascia incertezze: o sì o no perché il di più viene dal maligno. Ma io
al maligno non credo, chiariamolo subito.
Un
solo, precisissimo favore: un miracolo.
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