Il mio amico Riccardo, docente, giornalista e narratore, era in Spagna sabato 8 agosto, giorno dei funerali di Marco. Così lo vuole ricordare e abbracciare.
Ieri sera ho raccolto dalla rizada che porta al Sacro Monte
un frammento minimo della sofferenza d’un amico. Poca cosa, s’intende, briciole
di dolore rispetto all’enormità del male che sta devastando il suo fragile
organismo, ma sufficienti a farmi riflettere giusto il tempo d’un rosario
sull’infinita piccolezza che siamo; sulla mia infinitesima piccolezza
affacciata sopra l’immensità del Mistero. Un granello di senape, come dice il
Vangelo, che basterebbe la guareschiana “ultima falange del dito mignolo” del
Padreterno a spazzar via; oppure a riempire di eternità, magari attraverso le
vie buie e tortuose di una malattia che non perdona. Lo sa bene, il mio amico,
quando in avvio del pellegrinaggio ci ha ricordato chiaro e tondo che davanti a
lui ci sono adesso due sole strade: il miracolo, che sempre invoca perché tanti
progetti gli rimangono da realizzare, e la morte. Non quella cupa e disperata
di tanti affreschi medievali che la ritraggono con la falce in mano, ma
un’altra –più rara ad incontrarsi e quindi più preziosa- fatta di affidamento,
di cosciente lasciarsi andare al destino buono che ci chiama e, oserei dire,
persino di serenità. Quanta fede bisogna avere, mi chiedevo mentre sgranavo
avemarie insieme a tanti altri amici, quanto coraggio e quanta umana o
cristiana decisione per guardare con una simile carica di fiducia in faccia la
realtà? Perché, ecco, è di fiducia che in fondo si tratta: di fidarsi
dell’Altro, cioè di avere Fede. La sera precedente avevo ascoltato un docente
di Lettere, Franco Nembrini, parlare di educazione, cioè del sentimento con cui
accompagnare i ragazzi dentro la realtà; oggi, invece, ho trascorso oltre
quattro ore chiuso dentro scuola ad osservare come l’ottusità della burocrazia
sia capace giorno dopo giorno, con implacabile determinazione, di distruggere
quello che di più sacro ci può essere dentro un’aula: il rapporto tra maestro e
discepolo. Non so perché mi sia venuto in mente di mettere una accanto
all’altra queste tre serate vicine tra loro eppure tanto diverse. Forse perché
ne ho sentito sulla pelle il terribile, disumano contrasto tra chi la vita, da
sano o da malato, è ancora capace di abbracciarla e chi, non sapendolo più
fare, crede di tenerla in pugno riempiendo a iosa moduli e registri,
iscrivendosi a corsi di aggiornamento in cui la teoria governa da padrona,
pronunciando il fatidico “signorsì” davanti ad ogni richiesta assurda che venga
dai piani nobili (o ignobili) della scuola. Mi piacerebbe ci fosse il tempo per
invitare quel mio famoso amico in classe, alla ripresa delle lezioni, perché la
linea sottile che divide la vita dalla morte diventi per i miei ragazzi
qualcosa di concreto da toccare dentro le sue parole che sanno andare ben oltre
la banalità di una lezione didatticamente corretta. Ma già mi chiedo: quale
modulo dovrò riempire per poter richiedere l’incontro e, soprattutto, con quale
motivazione che possa rientrare nella casistica dei manuali della burocrazia?
Ric
Giovedì 28 maggio 2015
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