martedì 25 agosto 2015

Il racconto del mercoledì



Riso e vino
di carlozanzi

Nella pentola scivolò olio extravergine di olia.
Accese la fiamma, fece piovere dal ristretto cielo della sua cucina cipolla tagliata sottile, che trovò il condimento e cominciò a scaldarsi. Fiamma controllata, era stata lei a raccomandarsi: “Fuoco basso, la cipolla deve soffriggere adagio. La fretta fa danni in cucina. Gira con un cucchiaio di legno e aspetta. Si imbiondisce lentamente.” E lui così aveva fatto, da allora. Guardando sul fondo la rivide. Ebbe l’idea: due calici, uno per lei e uno per lui, e il Gewurztraminer, il vino che lei amava. La bottiglia era in frigo, per le occasioni. Quella stava diventando un’occasione. Il vino era fresco, la cipolla prendeva colore, stappò, versò nei due calici. Li raccolse entrambi, uno con la destra, l’altro con la sinistra. Fece incontrare i cristalli, che liberarono il suono della nostalgia. “Alla nostra!” disse guardando il volto immaginato della persona amata. Bevve il vino nel primo calice, quello di destra. La cipolla soffriggeva senza annerirsi, sollevò il secondo calice, disse “Mi manchi” e bevve ciò che spettava a lei, troppo distante.
Era il momento del riso, un bicchiere colmo “Mi raccomando, che sia Carnaroli” e la qualità giusta volò saltellando e  scoppiettando nel soffritto. Seguirono i cerchi per rimestare con il legno, “Un paio di minuti, massimo tre, poi il vino” e venne il tempo del Gewurztraminer, che allagò il riso ma subito scappò dal calore, volgendo a vapore, una nuvola profumata d’uva che salì dalla pentola con un verso, come il lamento di chi si è scottato.
A quel punto, lo spazio del vino, avvenne il miracolo. Non aveva sfregato la lampada di Aladino, ma quel vapore divenne il genio della sua vita, lei, la madre che lo aveva educato, bambino, nell’arte del risotto alla milanese. Lei sconfitta dalla vita, vinta dalla morte, sempre presente nel risotto e nei sogni.
“Davvero speciale questo Gewurztraminer” gli disse, afferrando con delicatezza il suo calice e chiedendo di nuovo l’assaggio.
“L’ho pagato un cifra ma ne valeva la pena, se t’ha fatto tornare” disse lui, con emozione stupita.
Cozzò il loro brindisi, mentre il riso friggeva, povero di vino.
“Il brodo, il brodo” disse la madre. “Ben caldo, mi raccomando.”
“Naturalmente, lo so molto bene” disse lui.
Dal fuoco di destra raccolse la pentola con il brodo, versò il liquido sopra il riso, i funghi porcini, una spruzzata di sale. Allungò il cucchiaio di legno alla madre: “Vuoi fare tu?”
“Vorrei, sai che lo vorrei con tutta me stessa.”
“Non puoi?”
“Te l’ho insegnato proprio per questo, perché non ti dimenticassi. E ho fatto bene. Hai buona memoria.”
“Non te ne andare.”
“Aggiungi del brodo, gira adagio il tuo risotto.”
“Il nostro risotto.”
“Dici bene…il nostro risotto.”
Lui stava nel mezzo, da un lato il profumo che usciva dal fuoco, dall’altro il profumo della madre amata, due piaceri che si univano, regalandogli uno spazio di pace. Ma l’incontro non durò a lungo.  E quando non la trovò più, e il suo chiamarla era una sfida già persa, si sedette, prese la bottiglia di vino e volle ubriacarsi. Ne bevve a canna, tre sorsi.
Il riso aveva di nuovo sete.
“Il brodo, il brodo” disse. “Non me lo perdonerebbe.”
Posò la bottiglia, si mise in piedi, accettò di continuare la sfida: il risotto sarebbe stato la sua quotidiana resurrezione.





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