Mia figlia Caterina è tornata stanotte da Trieste. Dedico a lei, e a tutti i giovani, questo mio racconto breve, scritto un paio di anni fa.
Quei
due, a Trieste
di carlozanzi
Arrivarono
una sera, da oriente, forse Slovenia o Croazia. Erano cotti di sole e di
desiderio. Pelle calda e scura, sudata per il lungo viaggio. Trovarono alloggio
all’Hotel Brioni in via della Ginnastica, un alberghetto due stelle di poca fama
dentro un budello che intuiva il mare di Trieste. Il padrone del Brioni dice
che lui avrebbe potuto essere suo padre, che lei era la più bella ‘mula’ triestina:
se fosse stata di Trieste. Ma di dove fosse, non è dato saperlo. Si chiusero in
camera. La gioia del loro godimento scivolò fuori per ore, scese le scale
(erano alla numero 12) e cercò la via del mare, in discesa. Uscirono da quella
camera verso le diciassette: niente colazione, niente pranzo, magri e felici.
Ma lei era annoiata, tanto che disse a lui: “E adesso dove mi porti?” E lui:
“Ti faccio conoscere la luce di Trieste.” Si diressero al porto.
“Te
lo dicevo, non ha l’odore di pesce. Senti puzza di mare?” chiese lui.
“Sento
che ho fame…e il mare non puzza” rispose lei.
“Per
mangiare c’è tempo” e la prese per mano, e la sua pelle gli fece tornare la voglia di lei.
Li
videro in piazza Grande, la piazza più bella del mondo.
“L’hanno
chiamata piazza Unità d’Italia, qui ci sta dentro davvero tutta l’Italia…che te
ne pare?” chiese lui.
“Dico
che è stupenda” rispose lei, che si voltò e volle raggiungere il molo. Voci di
una partenza imminente provenivano da una nave da crociera, una Costa che
occupava un lembo d’orizzonte. Ma non copriva il sole, che abbagliava un
rimorchiatore. Il piccolo natante sputava getti d’acqua come una fontana, il
sole giocava nella spuma, la luce increspata da un vento piacevole lucidava
Trieste. Con loro camminavano sul molo turisti e gabbiani, triestini e le prime
zanzare della sera.
Si
voltarono verso piazza Grande, verso i palazzi nobili di una città che avrebbe potuto
chiamarsi Vienna, rinfrescata dal mare.
Il
tramonto ingialliva la luce, lui le avvolse le spalle minute e la baciò sui
capelli. Si avviarono verso San Giusto, lentamente; il bello aveva quietato la
fame di cibo, la ragazza pareva appagata.
Incontrarono
presto la salita più dura.
“Ma
quando arriva San Giusto?” domandò lei. “Sono stanca, e non mangiamo da ieri.”
Lui
avrebbe voluto dirle che nulla sazia più dell’amore, e che non avrebbe dovuto
lamentarsi di una Trieste così accogliente, senza la lagna furiosa della bora che
te la fa odiare, ma disse soltanto: “Ecco, ci siamo” e nel voltarsi verso di
lei vide il mare d’argento e la lanterna e i tetti, anneriti dal controluce.
Un
prete della cattedrale di San Giusto racconterà di ricordare quella coppia,
salita sul colle triestino che suonavano le diciannove, ora di chiusura. Lui
aveva gentilmente preteso di pazientare, perché lei potesse godersi il fresco
della navata. Poi erano scappati in discesa, dimenticando il castello e il
monumento ai caduti, giù di nuovo verso il mare, di corsa, lei rideva gridando:
“Ho una fame che mi mangio anche te” e lui rispondeva “So già dove portarti,
amore mio” e il prete (ma questo non lo confessò) provò un’invidia buona verso
quei due, che certamente avrebbero unito i loro corpi e i loro respiri in un
abbraccio d’amore.
Un
altro che testimoniò di poter dire qualcosa di vero su di loro fu un giovane
artista di strada, che aveva tenuto uno spettacolo col fuoco proprio quella
sera, in piazza Unità d’Italia. Finite le sue evoluzioni aveva fatto la
questua, dicendo fra l’altro: “Magari anche qualche moneta di carta, non le disprezzo”
e a quel punto s’era avvicinata una ragazza sottile di viso, lunghi capelli, mora, che le aveva
messo in mano un biglietto. “Questo è di carta, ti va?” e c’era scritto “Sei
stato il migliore” e poi un sorriso e una moneta da due euro, con il suo saluto
“Magari però preferisci questa…ciao.” E il girovago dai piedi nudi e callosi aveva
visto la ragazza andarsene insieme ad un uomo e aveva pensato (ma questo non lo
disse a nessuno): ‘Io saprei renderti più felice: che ci fai con quel vecchio?’
Il
resto lo so io, con precisione, perché quel vecchio è un mio amico, e me lo
raccontò due anni dopo, a Trieste, una sera di vento, al riparo in un bar,
mentre il gelo evaporava e un tepore di fumo e di alcol e di parole ci rendeva
loquaci.
“Si
chiamava Giulia e aveva sempre fame” mi raccontò. “Quella sera siamo stati a
cena da Marinato, frittura di pesce e Gewurstraminer,
che amava. All’uscita era brilla, brillava come piazza Grande, e nella piazzetta
ci sono capitate le Orme, cariatidi che ancora cantavano i successi degli anni
Settanta. Al Brioni saranno state le due quando hanno bussato, glielo dicevo di
non fare chiasso, di trattenersi, rideva e mi baciava e non era mai sazia. Bussano,
metto addosso qualcosa, apro, vedo il proprietario e due tipi, mi allungano sul
naso un tesserino, non ho capito bene che tipo di forza dell’ordine erano,
vogliono portarci via, chiedo la ragione, anzi, prima mi assicuro che non sia
un sogno, sogno non era, quelli lì al Brioni c’erano per davvero, e sai che mi
dicono? Siete due tipi sospetti. Sospetti? Troppo felici, dice uno dei due,
gente come voi non passa inosservata. Seguiteci. Non vogliamo epidemie.”
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