Questa foto, apparsa su fb grazie alla passione del mio amico Fausto Bonoldi per la storia della nostra Varese, che mostra il cantiere del Palazzo del Sole a Biumo Inferiore, e che permette di vedere anche la vecchia Area Cagna, mi ha riportato ai miei anni biumensini (1961-1981) e alle storie di quella castellanza, compreso il Venezia, al quale dedicai anni fa un raccontino che oggi, giornata un poco uggiosa, ripropongo.
Il Venezia
Ma perché mai un lettore dovrebbe perdere il suo tempo, leggendo questo breve racconto? Subito detto: per incontrare il Venezia. E per incontralo non avete che me. Lui, il Venezia, nulla ha lasciato di scritto, niente immagini televisive, niente registrazioni audio. Solo il sottoscritto, con la traballante potenza del suo ricordo. E perché proprio il Venezia merita un racconto? Perché era un buono, e se ci teniamo ad impratichirci in questa qualità morale, allora ci farà bene sapere di lui.
Il Venezia…mamma mia, se ci penso
sento ancora in pancia l’emozione per quel suo gesto elementare e stupefacente.
E vedo soprattutto la sua di pancia, prominente dentro una tuta da meccanico,
ventre che ancor più evidenziava l’unto da meccanico. La tuta era blu carta da
zucchero, con macchie di grasso e nera sull’addome, dove preferibilmente si
sfregava le mani. Un baschetto anche quello blu e un negozietto in fondo alla
via, un locale unto e bisunto ricavato dentro un palazzotto cadente. Fra il suo
negozio e il mio quartiere stava, nel mezzo, centralità del sapere, la mia
scuola elementare.
Riparava biciclette e motorini il
Venezia, ma il lavoro non era tanto nemmeno allora, dato che il suo addome
esagerato spesso sbucava dalla soglia del negozio, a dire che non si stava
ammazzando di fatica. Però qualcuno si lamentava che le riparazioni le eseguiva
con calma, al limite del tempo massimo.
Perché lo chiamavamo il Venezia lo
si sarà capito. Allora usavamo quel termine per due categorie di individui:
quelli che giocando al pallone non passavano mai la sfera (ma non era il suo
elenco) e quelli come lui, emigrati dal Veneto in cerca di lavoro, quasi subito
costretti a spartirsi il pane con i fratelli del meridione d’Italia. Due
povertà che trovavano nella mia città del cibo, un lavoro e aria senza troppi
inquinanti.
Ma la faccio breve, perché ciò che
conta è quel gesto, quella scelta, quel sorriso tagliato dentro una faccia
grossa e rossa come un’anguria divisa a metà, con quella coppola che lì in alto
soffriva di vertigini e pareva sempre sul punto di cadere. Perché il Venezia,
come molti veneti, era alto di statura.
Dio mio, se ripenso a quei
tempi…già, ma non cado nel tranello, erano belli perché era bella la
giovinezza: tutto qui. Ma stiamo al riparatore di bici. Avevo sette anni,
seconda elementare e una bici non
adeguata: io non ero un gigante, ma quella bici era da nani. Mi accontentavo
perché mi portava per il cortile di sassi dove volevo, e se tiravo coi pedali
sentivo l’aria in faccia e mi pareva di andare veloce. Non ero prudente, e come
ogni bimbo sopravalutavo le mie abilità e sottostimavo i rischi. Le mie
ginocchia parlavano chiaro. Ma quel giorno si fece male anche lei, la
bicicletta. Una curva mal condotta mi buttò contro lo spigolo del palazzo e a terra.
Non piansi perché avevo una compagna di scorribande, si chiamava Patrizia, mi
piaceva e qualche volta riusciva a stare al mio passo. Non quel giorno. L’avevo
staccata inesorabilmente. Fu brava Patrizia, non rise di me. Avevo sangue e
abrasioni, ma soprattutto una bici con il manubrio storto e un cerchione che
toccava sulle forcelle.
“Mia mamma mi ammazza” dissi a
Patrizia.
“Perché non vai dal Venezia? Se
vuoi ti accompagno” disse Patrizia.
Mi parve una follia. Avessi dato
seguito a quel piano e fossi stato scoperto, sarebbe intervenuta anche la furia
di mio padre. Ma c’era Patrizia con me.
“I tuoi ti lasciano uscire dal
quartiere?”
“No” disse la ragazzina.
“Nemmeno i miei.”
“Andiamo” e Patrizia mi prese per
mano.
Cercai per un tratto di mantenere
l’estasi della mano di una ragazza e il trasporto della bici, ma fui costretto
a sganciarmi. Il trasporto mi obbligava ad usare entrambe le mani, sollevando
la ruota anteriore che non girava.
Il Venezia era là, con la pancia di
fuori e la Nazionale senza filtro che pendeva dalle labbra, la barba di tre o
quattro giorni e il sole basso negli occhi.
Ovvio che non ricordi esattamente
le parole di quel breve dialogo. Vado con la memoria, con la fantasia, cercando
di tradurre un sentimento e quel poco che ricordo di quella faccia simpatica.
Mi vide e disse: “Ti conosco…tuo
padre non è quello che abita al quartiere?”
Dissi di sì, sapevo che conosceva
il mio vecchio (vecchio di adesso), non ero sicuro che si ricordasse di me.
“E questa ragazzina? E’ la tua
fidanzata?” chiese il Venezia.
“Sì” rispose Patrizia.
Secondo me non era vero, non so
perché lo disse, non fu mai la mia ragazza, forse in quel momento le andava di
fare la grande, la già impegnata con un ragazzo che, diciamo la verità, non era
il peggio del quartiere.
“Vieni qua” disse il Venezia,
notando i miei graffi e la bicicletta. “Non c’era nessuno in casa?”
A me le bugie uscivano a rilento,
per questo Patrizia prese di nuovo la parola: “Nessuno, allora abbiamo pensato
di venire da lei.”
“Bravi….qua ti pulisco un po’” e mi
fece entrare nel negozio, un antro senza luce, sporco. Sapeva di ferro e di
grasso, irranciditi dalla muffa. “Siediti lì.”
Le parole del Venezia dovete
immaginarle con inflessione veneta,
sporcate con qualche frase in dialetto stretto, che non capivo.
Fece finta di lavarsi le mani con
un pezzo di sapone da bucato annerito dal grasso, dentro un lavandino di
metallo piccolo piccolo, con un rubinetto dalla manopola a forma di fiore.
Prese dell’alcol e del cotone idrofilo e mi disinfettò alla meglio.
“Sua mamma lo ammazza” disse
Patrizia, indicando con la mano e lo sguardo la bici contorta.
“Certo che lo so” disse il Venezia,
che si mise all’opera e raddrizzò manubrio e cerchione con una sveltezza che
non immaginavo.
La bicicletta era in ordine e avevo
conquistato Patrizia. Almeno di questo mi illudevo, dopo aver salutato,
ringraziato ed essere risalito in sella, per non farmi staccare da lei.
In realtà non avevo conquistato una
ragazza, avevo forse capito che comandano le donne, e anche il mio procedere
dietro Patrizia, verso casa, diceva di una certa sottomissione. In verità ero
stato conquistato dal Venezia. Ma l’avrei capito molti anni dopo.
Patrizia me la sono dimenticata,
lui no. Il ricordo del suo sorriso buono credo mi abbia salvato dagli eccessi
di cattiveria e di egoismo, permettendomi di mantenere un sufficiente livello
di buona creanza. Oggi, che so quale gioia si prova a far contento un bambino,
riparandolo dalla violenza degli adulti, posso leggere sino il fondo quel
sorriso, tagliato dentro una faccia rubiconda e sporca, grande e rotonda come
una rossa anguria, divisa nel mezzo.
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