Stamani, 17 settembre, sdraiato sulla panchina in pietra in cima al Campo dei Fiori, nel sole, con la prima nebbia sopra il lago di Varese, ho ritrovato il vissuto di questo raccontino che ho scritto anni fa. Passa il tempo, il traguardo s'approssima, ci si sente giovani: è uno dei tanti inganni della vita...che resta - quando si sta bene - un'avventura degna di essere sperimentata.
settembre
Tutti pensano alla morte. Anche se non
ci si pensa. Molti, credo, immaginano la scena del proprio funerale, quando gli
altri, almeno qualcuno piangerà la nostra dipartita. Abbiamo bisogno di
sentirci capaci di creare nostalgia. Vi è chi spende denari per farsi predire
il futuro da prezzolati ciarlatani: il futuro, quindi anche la morte. Credo sia
pura follia, perché la nostra unica fortuna di viventi sta nella salutare
ignoranza degli eventi tragici in generale, e della morte in particolare.
Per parte mia, ho invece espresso un
desiderio: se proprio c’è da morire (e proprio c’è da morire) che almeno sia
come piace a me. E cioè così.
Supino, sul duro di una delle due panchine in pietra,
poste a vedetta della piana lombarda, insieme ad un obice da 75/13
demilitarizzato, due bombe e ad una lapide (che fa memoria della Linea Cadorna
del ’17, e di una tetra quanto inoffensiva minaccia di invasione
austro-ungarica dal Canton Ticino), sul piazzale-eliporto di una delle cime del
Campo dei Fiori, che ho battezzato ‘del cannoncino’. Sotto la nuca le mani, o
tutt’al più il caschetto da corridore ciclista, quale mi definisco: ciclista
non professionista. Perché sul duro giaciglio devo arrivarci in bicicletta,
dopo nove chilometri di salita, percorsi possibilmente sotto i cinquanta
minuti, partendo dal rione di Sant’Ambrogio Olona.
Quando non sommavo l’età che ho adesso,
la salita (da me sempre amata) era conditio sine qua non per la discesa, la mia
vera passione, che affrontavo spericolatamente, senza tema di morire. Non
pensavo alla morte, allora. Non credevo possibile che lei, infame, rivolgesse
la sua ingordigia anche contro di me. Oggi è diverso. La salita è il dolce,
faticoso cammino verso quell’approdo, cioè il mio distendermi sulla panca.
Perché devo toccare la meta affaticato (quel giusto), ma soprattutto sudato,
affinché appaia benefico il getto d’acqua che, sgorgando dalla borraccia, si
spande in rivoli sul mio volto; se d’estate, anche sui capelli e sulle braccia.
Così mi distendo. Lo sto facendo anche ora, che un robusto ma non violento
vento settembrino mi ha condotto quassù, a tratti appesantendomi la pedalata, a
volte facilitandola. Sono giunto al piazzale che è quasi mezzogiorno. Non c’è
nessuno. Fermo il cronometro: quarantasette minuti primi, quaranta minuti
secondi. Bene. Compio un paio di evoluzioni intorno al triangolo in vernice,
che contorna la grande H, segnale per l’elicottero, che una
volta sola ho visto atterrare lì. Due circonferenze, sempre più ristrette, poi lascio
il mezzo, mi bagno e mi distendo, cercando il sole, come le lucertole. E oggi
c’è, appeso ad un cielo senza foschia, a tinte forti. Sento il vento che
s’arrampica da nord-ovest, struscia sui boschi e sulle rocce, va a sfrangiarsi
contro un arbusto, incastonato fra le ultime pietre sommitali. Soffia il vento
ma si disperde verso l’alto, non arriva alla panca.
Morire così, dentro questo fresco
mormorìo, nel silenzio, sentendo che la pelle s’asciuga, le guance, il mento,
il naso, infine, ultime, le sopracciglia. Morire così, con quelle vallate e
quei colli, quelle acque e quei boschi che non ho più neppure il bisogno di
ammirare, tanto li ho mandati a memoria. Mi costituiscono, ormai.
Oggi non ho guardato verso ovest, ma so
benissimo che il lago Maggiore avrà pressappoco lo stesso colore dei boschi,
blu notte lui, verde cupo loro. Siamo ai primi di settembre, le foglie hanno
appena iniziato la policroma metamorfosi, ciò che senz’altro appare è un esteso
manto verde punteggiato di case, raggrumate in paesi che si chiamano Brinzio,
Arcumeggia, Bedero, Castello Cabiaglio, su e giù sino a Luino, borgo di confine
fra la terra e il lago.
Morire così, ad occhi chiusi aspettando
gli occhi chiusi della fine, senza soffrire: perché davvero si è già sofferto abbastanza.
Con la pace dentro e il bello fuori, un volo d’aliante che accarezza la cupola
dell’Osservatorio, i tanti laghi della pianura, le rocce, le nuvole, i ghiacci
a disegnare l’orizzonte lontano.
Davvero vorrei morire così, se
dipendesse da me. Adagio adagio, respirando il vento che sale e si disperde, ad
occhi chiusi, nel buio dei pensieri che tutto contengono. In alto, dopo aver
abbracciato e baciato le mie molte donne, che in quello stringere forte
sospetteranno un eccesso di romanticismo, e non il mio saluto più radicale. La
pedalata e insieme il sonno, uno sciogliersi dentro il settembre più accogliente.
Un addio senza dolore, disteso sopra il duro della pietra; un ritorno alla
terra, mendicante ai piedi di Dio.
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