Come
sono felice
di carlozanzi
Sono
vecchio. Quindi triste perché malmesso, dolorante, prossimo alla morte.
Plutarco ci ha lasciato questa frase, che ho scoperto pochi giorni fa: “La
morte di un giovane è un naufragio, quella di un vecchio è l’approdo in un
porto quieto.” Non sono d’accordo. Almeno la mia vita non dice questo. Sono
senza idee e senza progetti, eppure non voglio morire. E di quieto c’è solo, ai
miei occhi, questo lago: sempre più vecchio, sporco d’alghe. Dai pori della sua
buccia sfiata un cattivo odore. Eppure sono qui, seduto su un grosso masso, il
località Schiranna, parco ‘Luigi Zanzi’. Davanti a me le cannette, sottili
canne d’organo ritte al cielo, perché non c’è brezza. Qui ho imparato a pescare.
Avevo tredici anni, l’età delle prove:
la pesca e le prime sigarette. Le rubavo a mio padre e me le fumavo in perfetta
solitudine; un godimento puro quel silenzio e quel fumo. Presto ho imparato a
non tossire, a ingoiare la nebbia calda, ad apprezzarne il sapore. Sì, ma oggi
la Schiranna non mi interessa, perché i miei occhi nuotano a pelo d’acqua e
sono subito là, sulla riva opposta, fra le cannette di Galliate Lombardo.
Dicono che ai vecchi viene il mal di collo, a furia di guardarsi indietro. Non
hanno ancora capito che in verità i ricordi sono il ponte sul quale camminiamo,
passo dopo passo, ponte che ci permette di valicare il baratro di un futuro che
non c’è più. Ponte che oggi mi conduce, appunto, a Galliate. Perché ho voglia
di strappare un sorriso a queste mie labbra dritte e secche. Voglio ripensare
alla storia dei fratelli Borri, Gionata (alto e magro), Paolo detto Pollo (più
basso e robusto), gemelli diversi, in tutto. O quasi. Gionata più riflessivo,
Pollo più ruspante. Si rassomigliavano nel rendimento scolastico (non buono per
entrambi) e per la maestria nella pesca. Si muovevano con canna, filo, ami,
galleggianti, esche come farebbe un giocoliere, abile con dieci palle, se
dovesse lanciarne in aria due soltanto. E lo facevano fra cannetta e cannetta,
evitando pozze e fango da sabbie mobili. Mai che l’amo si impigliasse nella
vegetazione, che si ingarbugliasse la lenza, che dovessero imprecare alla
perdita di tempo, dovuta agli incidenti che tanto deprimono il pescatore,
soprattutto se accanto a lui –intento a riparare la lenza- un altro butta pesci
nel cestino. E lui sapeva che i fratelli Borri lo invitavano nella loro
fattoria di Galliate, lo invogliavano a fare con loro una battuta di pesca
anche per vendicarsi delle frustrazioni patite a scuola. Però ci andava,
volentieri. In bici, la canna legata alla canna, il cestino a tracolla,
euforico per la visione di pesche miracolose, in discesa giù per il muro di
Cartabbia e poi il piano, sino a Galliate. Sapeva che il ritorno sarebbe stato
penoso: cestino semivuoto e quella salita, a rendere ancora più infuocata la
sconfitta. Lo sapeva ma insieme se lo dimenticava, testardo nell’ottimismo come
la morte, testarda nella sua odiosa ripetitività. Ma quel giorno, quell’afoso
mercoledì pomeriggio, ventidue maggio millenovecentosessantanove, le cose andarono
diversamente. E per fortuna che ci sono certe giornate; rendono giustizia alle
tristezze, che non risparmiano neppure i ragazzi. Tutto come sempre: i due
Borri scattanti come cavallette, scovavano inattesi e pescosi anfratti fra le
canne, evitando il fango più alto. “Tel chì, l’è n’altar gubìn…sa l’è bell!”
diceva Gionata. “Il solit culatùn” diceva il Pollo. “Ma specia ‘n mument…dasi
dasi….senza pressa….e mo’ tira su….tela chi ‘na bela scardula…” E lui, a
qualche metro di distanza, finito nella mota, con già tre punture (due tafani e
una zanzara) e due lenze regalate al lago, a dire: “Bravi….siete bravi…per
forza, è casa vostra…” ma col pensiero era già oltre. Aveva scovato una radura
che giudicava promettente. “Non andare di là, che ci sono le sabbie mobili” gli
urlò sulla schiena Pollo, ma fece finta di non sentire. Ci arrivò, cagnotti
sull’amo, due, uno trafitto da capo a coda, a coprire tutto il metallo, e
l’altro a penzolare, preso per il collo, affinché si muovesse in acqua e
attirasse la preda. Poi la premonizione. Ma con un amo così piccolo e un filo
così debole, se (per culo, dico per culo) abbocca un luccio, spacca tutto e
allora non reggerei….Così fece, per una volta, ciò che non faceva mai:
rischiare. Perse dell’altro tempo cambiando filo, amo, galleggiante, esca, un
lombrico succoso, che imprecava alle punture dell’amo attorcigliandosi e
gemendo in silenzio. Poi il lancio e l’attesa, mentre i due Borri seguitavano a
scambiarsi frasi nel dialetto di Galliate, che lui ben conosceva, perché simile
al bosino di città. Non erano ancora le quattro quando il suo galleggiante
partì come un siluro. Fece quello che un pescatore non dovrebbe mai fare,
tirare subito con veemenza, vinto dall’euforia della cattura. Lì ci vuole
quiete e pazienza, sangue freddo e un bel respiro. Lui no, ma nel suo caso fu
una fortuna: perché se il persico trota (meglio noto come boccalone) fosse
riuscito a inabissarsi e a nascondersi in mezzo alle canne, da lì non lo si
tirava fuori più. Invece riuscì a bloccare la sua fuga, l’amo fortunatamente
trovò appiglio nella grossa bocca del pesce, che iniziò la danza della morte,
un agitarsi doloroso che un pescatore, crudelissimo, legge solo come puro
piacere, estasi da conquista. Non urlò. Muto. Si trattenne, incredulo e
voglioso di non far sapere nulla ai due, che sarebbero subito accorsi,
aiutandolo nel recupero della bestia e portando a casa un po’ di vittoria.
Silenzio, solo il rumore dell’acqua agitata, solo il verso degli schiaffi che
il persico dava all’acqua del suo lago traditore.
I
Borri sentirono quel tramestìo, lo tradussero come il suo solito impaccio,
dissero uno svogliato: “Ora veniamo…” e si prepararono a porre rimedio alla sua
inesperienza.
Lo
trovarono ritto in piedi, la canna nella mano sinistra, il filo nella destra, e
sotto la mano l’enorme pesce; sfinito, dava gli ultimi colpi di vita, salutando
con la pinna caudale.
“Cazzo, che
bucalùn!” disse il Pollo.
‘Cazzo, come
sono felice’ pensò lui.
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