Un visigoto nel presepe.
La giornata era cominciata come iniziano tutte, per chi è
stato reso solo dalla vita.
Aveva aperto gli occhi sul solito pezzo di parete; aveva fatto
le solite cose, nei soliti tempi. Era uno dei momenti peggiori, il risveglio.
Al pari del chiudere fuori dalla porta il resto del pianeta, alla sera.
Lo era perché in quei momenti lui (Dottor Giovanni Trezzi il
suo nome, posto sulla targa regolamentare della porta dell'ufficio) si sentiva
mendicante di un sorriso, di un saluto, di un abbraccio. Poi il momento passava
e l’agenda prendeva il sopravvento.
Ma quella mattina era diversa. Era Natale.
Ed era un Natale particolare: aveva organizzato tutto in modo
perfetto, premeditato. Aveva detto, a ogni parente che per dovere gli aveva
prospettato un invito, che ne aveva già accettato un altro, da un altro
parente.
Contava molto sulla comunicazione interfamiliare...
Non a torto, visto che dalla sera della Vigilia, dopo le
telefonate di auguri, era calato il silenzio. Quel silenzio che spesso bramava,
quando era in mezzo alla gente, o quando il suo lavoro lo inseguiva, in ufficio
o nelle trasferte; sotto forma di telefonate o richieste improvvise, fatte con
l'insistenza e il tono di chi crede che il proprio problema sia l'unico degno di
risposta immediata, o almeno che sia grave al punto da mettere a repentaglio la
sicurezza nazionale.
Un pensiero gli
attraversò la mente; la contraddizione evidente tra l'amarezza del risveglio e
questa ricerca della solitudine a tutti i costi. Sì sentì strano, fuori posto.
O meglio, avvertì lancinante la sua domanda, il suo insoddisfatto desiderio di
conoscere quale fosse il proprio posto nel mondo.
Era andato alla
Messa di mezzanotte, aveva salutato gli amici, indugiato con loro in piazza,
dove era stato preparato il primo momento di festa. Era stato un piacere stare
lì, e una sottile delusione incamminarsi verso casa. Ma nonostante questo aveva
voluto un Natale solitario.
Si preparò il
pranzo, con molta cura; la stessa che aveva messo nel preparare comunque la
casa, la tavola, l'albero, il presepe.
Già, il presepe. Lo
aveva studiato nei minimi particolari per giorni, e dopo la Messa aveva deposto
la statuina di Gesù Bambino nella culla. “Come assomiglia al figlio dei
vicini!”, si era detto.
Matteo, il
pestifero ultimo figlio dei Gherardi, la famiglia che abitava di fronte al suo
appartamento.
Matteo, che gli
aveva ammaccato la porta del garage a pallonate, suscitando l'ira del Signor De
Paoli, il quale abitava proprio sopra al box e doveva sorbirsi il fracasso.
Immerso nei suoi
pensieri aveva pranzato, con il sottofondo festoso di quello che accadeva negli
altri appartamenti, dove si festeggiava in modo rumoroso ma senza infastidire,
come era nello stile del palazzo. Aveva lavato
i piatti, e si accingeva a mettersi in poltrona, in compagnia di un
libro, quando dal cortile giunse un rumore ben conosciuto: “Pum! Pum! Pum!”
Il bambino
imperversava sulla basculante del garage anche a Natale.
E poteva farlo
liberamente, perché il De Paoli a Natale non era mai in casa, sempre invitato
dalla figlia. “Oggi però il visigoto si diverte di più, senti come se la
ride!”, pensò Giovanni, e attratto dal baccano festoso decise di uscire in
balcone, a vedere.
In effetti il
bambino aveva un'ottima ragione per essere così contento. Poteva confrontarsi
con un portiere d'eccezione: il suo papà, che non aveva esitato di fronte
all'invito del figlio e aveva abbandonato la tavola e i commensali per giocare
con lui.
Ma il portiere non
stava difendendo la porta del suo garage, questa volta. Stavano giocando
davanti al loro box. Sorrise, pensando che Matteo lo facesse apposta, a far
imbestialire il povero De Paoli...
E in quel momento
il portiere lo vide: “Signor Giovanni, Buon Natale! Ma lei oggi è a casa? Come
mai non è dai suoi parenti come al solito?”
Non seppe cosa
rispondere, e rimase lì, con il sorriso che aveva acceso il suo volto nel
vedere il gioco dei due vicini.
Fu Matteo a
interrompere il silenzio che si era creato: “Dai, vieni a giocare con noi!”.
Proprio così, come si invita un amico, un compagno di scuola. Non si poteva
rifiutare.
Si ritrovò in
cortile, a giocare al pallone. E si divertivano tanto, quei tre, che presto
furono quattro, cinque, sei.
Quando il sole
stava già calando c'era più gente nel cortile che nel condominio, e anche
quelli che non partecipavano alla partita facevano il tifo dal balcone.
Mamma Gherardi alla
fine si sentì investita del ruolo di arbitro, se non altro per decretare la
fine della gara, annunciando solennemente che era ora di risalire, per Matteo.
E si sa, il marito
non poteva contraddire.
E si sa, quando la
mamma che richiama all'ordine è quella del proprietario del pallone...
Salirono insieme,
ma quando Giovanni si avvicinò alla propria porta, Matteo disse: “Vieni a cena
a casa nostra; nessuno deve stare solo, il giorno di Natale!”
Il padre annuì,
visibilmente soddisfatto per l'iniziativa del figlio.
Fu così che il
Dottor Giovanni Trezzi, che aveva progettato un Natale perfetto, da trascorrere
da solo in santa pace, e che si era ritrovato anche quel giorno in compagnia
della domanda che abitava da tanto tempo in fondo alla sua anima, si ritrovò in
mezzo a una festa familiare in piena regola.
Ma si sentiva il
cuore leggero.
Quando, ormai
entrati a pieno titolo nella Festa di Santo Stefano, tornò finalmente nel suo
appartamento, si accorse di aver lasciato accese le luci del presepe. Gesù
Bambino, con la faccia del Matteo, sembrava sorridergli, per dirgli che il suo
posto nel mondo era proprio lì, dove era stato messo.
Simone
Mambrini
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