martedì 16 gennaio 2018

Il falò della verità

                                                                                     ph da google immagini


Non è la prima volta che pubblico qui questo racconto breve, ma lo ripropongo anche oggi anzitutto perché stasera si accenderà la pira in piazza della Motta, e poi perché il protagonista di questo raccontino è tornato prepotentemente d'attualità, grazie ad un suo lapsus freudiano.


Il falò della verità
di carlozanzi



Il borgomastro di una ricca città del nord s’era vestito pesante, di lana e di flanella, sciarpa e scarponcini col pelo e una simil colbacco alla russa; barbetta lunga di tre settimane, mentre si avvicinava alla grande catasta di legna stringeva nella mano destra una grossa torcia fiammeggiante, nella sinistra un biglietto. Era lì convenuto per l’accensione del tradizionale falò di Sant’Antonio, un’usanza di quel borgo che vedeva in cerchio intorno alla collinetta il sindaco o borgomastro (per dirla alla nordica), il prevosto e altri notabili della città, fra i quali si distinguevano il capo degli organizzatori della pira (un ometto tutto bianco di capelli, di sopracciglia e pallido come una luna smorta) e una signora in età, con un mantello color porpora, a capo della Famiglia (con la F maiuscola) che si prodigava per tenere vive le tradizioni del luogo. La stretta via che infilzava la piazzetta era satura di cittadini, vogliosi di presenziare alla festa.
Era usanza lanciare nel fuoco biglietti recanti desideri, per lo più amorosi, nella speranza che il santo arrivasse dove fallivano la buona volontà, il fascino e i quattrini. Anche il primo cittadino aveva il suo breve scritto ma non chiedeva mogli, amanti o una botta di vita. Essendo prossime le elezioni di quella regione, domandava senza giri di parole che vincesse la sua parte, impegnata da tempo a far valere le ragioni del settentrione. Nella sua mente si figurava il sud come un diavolo che tirava il nord verso il basso, dentro il fuoco dell’inferno; o ancor meglio come una sanguisuga, che succhiava sangue ossigenato dal vento delle Alpi, ingrassava ai danni di un esangue settentrione, costretto a lavorare il doppio per sovvenzionare pigri fratelli, adusi a lunghe sieste pomeridiane, svuotati nelle forze da qualche grado in più di calore nell’aria. Mentre intingeva la torcia fra le cassette di legno lasciò scivolare il biglietto lì accanto, in attesa che bruciasse tutto, senza lasciare traccia delle sue speranze politiche, solo qualche brandello di cenere svolazzante nella rigida notte del sedici gennaio.
Avvenne un fatto inatteso: la fiamma attaccò subito ma il biglietto, avvolto dal fuoco, scappò fuori come per timore di scottarsi, si ritrasse intatto, volò, perse quota e finì proprio davanti allo scarponcino peloso del primo cittadino. ‘La fiamma avrà propiziato uno sbuffo’ pensò e si inchinò per raccoglierlo.
“Si sente male?” chiese la signora ammantata di porpora.
“Mai stato così bene” rispose lui. “Una gran bella festa. E il fuoco prende che è una meraviglia.”
Sant’Antoni dul purscèll… ghè da fidàss” disse la donna, nel dialetto del luogo.
Il sindaco rispose: “Già..l’è propri vera…” ma con la mente era al biglietto. Guardò. La prima facciata che lesse era la sua scrittura, tale e quale. Era già pronto per rilanciare il foglietto nel fuoco, quando notò che il retro non era intonso. Trasalì. Lesse.
‘Diavolo d’un borgomastro, cosa pretendi? Che un eremita egiziano quale sono stato io appoggi la tua secessione? O forse hai sbagliato Antonio, e pensi a quello da Padova, nato un millennio dopo di me? Certo, Padova farebbe comodo alle tue mire nordiste. Ma sappi che lui a Padova è solo morto, i suoi natali sono di Lisbona. Rispedisco dunque il tutto al mittente. E vota bene!’ 
Il sindaco traballò.
“Lei non la conta giusta. Stasera non mi piace. La cera non è buona. Torni a casa” disse premurosa la capessa della Famiglia.
“Sarà stato il vin brulè” disse il borgomastro, con il volto trasfigurato dalla gigantesca fiamma, che crepitava a pochi metri da lui.



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