L’angelo
del San Martino
di carlozanzi
Giunto
in bici a Cuveglio guardò alla sua destra, oltre le case, nel bosco, sino al
confine fra il verde e l’azzurro. Doveva salire là in alto, a San Martino in
culmine. Svoltò a destra, nella stretta via in salita, all’inizio della quale i
cartelli indicavano senza dubbio la sua meta. Si fermò sui gradini di una casa.
Si sedette. Slacciò le scarpe, si tolse i pantaloni lunghi e rimase in braghe
corte da ciclista. Sfilò anche la maglia pesante, il caschetto, i guanti che lo
avevano riparato lungo la discesa del Brinzio e sulla provinciale della
Valcuvia, ancora fresca nonostante la carezza di un bel sole d’aprile. Mandò
giù un paio di sorsi di acqua minerale frizzante, ruttò con la sordina, tornò
in sella e fece il segno della croce.
Era
arrivato lì da Gurone e lo faceva tutti gli anni, in aprile, possibilmente non
lontano dal venticinque. Era il suo pellegrinaggio da atleta alla memoria dei martiri
del San Martino e, più in generale, di tutti i morti in guerra seguendo un
ideale di libertà, giustizia, Patria.
Sino
a Duno fu un sollazzo, un’estasi, un pedalare al sole senza fatica, assaporando
la gioia di un fisico che ancora rispondeva ai suoi comandi, docile e
collaborativo. Cercava la concentrazione per non offendere con distrazioni i
partigiani, gente molto più giovane di
lui che s’era fatta ammazzare su quel foruncolo silvestre nel novembre del
millenovecentoquarantatré. Ma la distrazione era nell’aria, nel canto degli
uccelli, nel verde che luccicava, nella dolce Valcuvia che s’allontanava, case
piccole, auto invisibili, il massiccio del Campo dei Fiori di fronte, Cuveglio,
Cuvio…e Cuvio lo condusse su uno dei tanti letti descritti da Piero Chiara. Il
pretore Augusto Vanghetta salì in sella con lui (Chiara avrebbe scritto ‘sulla
canna’) e cominciò a raccontargli dei suoi amori, del fascino delle donne,
belle o brutte non importa, del suo diritto a tornare in loro, poiché da loro
era saltato fuori, in carne e già voglioso.
Lo
strappo di Duno, un chilometro davvero impegnativo, lo costrinse a far scendere
dalla bici il grasso e lascivo pretore di Cuvio. La fatica giunse ad
intossicargli le gambe, salì sui pedali, si pentì di aver scelto un rapporto
troppo duro e ora, al colmo della pendenza, non poteva cambiare. Ma anche
quella sofferenza finì, trasformandosi in una fatica più sopportabile.
Saliva,
oltre Duno, entro un bosco troppo carico di robinie per essere piacevole,
alberi infestanti, spinosi. Ogni tanto qualche faggio o castagno addolciva la
scena. La strada era malconcia, la pendenza sempre notevole, tornò la preghiera
al Cristo sofferente, che gli insegnasse il coraggio di arrivare sino alla
meta. Tornarono le immagini della guerra, di quei morti, della loro audacia e
anche a loro chiese un aiuto, per non mettere il piede a terra, da pavido. Si
vergognò: paragonare quella sua salita cicloturistica alla morte partigiana, ad
una fucilazione per mano dei crucchi era un’offesa a chi l’aveva subìta. Tornò
Piero Chiara e la sua ostinata predilezione per le donne. Gli venne un paragone
fra le due femmine della sua vita: le donne e la bicicletta. Si convinse che
era preferibile, a conti fatti, la seconda: più fedele, silenziosa, sottomessa.
Perché lamentarsi di lei? Eccola, obbediente al ritmo della sua pedalata, seguire
con il sibilo metallico della catena la strada che ora, dopo il bivio e una breve
discesa, tornava a salire non più fra robinie ma in un bosco di faggi e di
castagni, abbellito da bassi pini silvestri. Guardò a sinistra, il largo
panorama che s’apriva alla sua fatica sopportabile, le Alpi innevate, la
purulenta ferita della cava del cementificio di Gemonio, addolcita dall’azzurro
intenso delle acque del lago Maggiore. Doveva fare attenzione ai sassi e alle
buche, ricordi dell’inverno dei mille metri.
Al
sacrario pregò intensamente, si impegnò per soddisfare le esigenze dell’ultimo
strappo, sbucò nel sole intenso della cima, guardò la chiesetta di San Martino,
fermò il cronometro, controllò il riscontro, sorrise compiaciuto, posteggiò l’amata
bici, fece un segno di croce e si riposò.
***
Aveva
da poco oltrepassato, in discesa verso Cuveglio, il cartello metallico con la
scritta Duno, quando si distrasse pensando alle ginestre, un fiore che amava:
aveva notato alla sua destra alcuni cespugli del fiore leopardiano. Prese una
buca, sentì uno scoppio, frenò ma la strada
era sporca di ghiaia minuta, perse l’equilibrio, scivolò, finì con la testa
riparata dal caschetto contro un basso muretto sul bordo della via. Non perse
mai i sensi ma ebbe molta paura. Le abrasioni sulla coscia destra bruciavano,
un dolore alla spalla destra gli fece pensare alla frattura della clavicola, aveva
male al mento. Cercò di rialzarsi ma l’adrenalina della paura non fu
sufficiente.
Marzia
Calori, di Duno, era uscita a fare una passeggiata col cane. Aveva visto
l’incidente. Si era avvicinata al ferito, redarguendo Buddy che s’era messo ad
abbaiare. Aveva appena concluso la telefonata con un suo amante di Canonica.
Teneva ancora il cellulare in mano ma non chiamò il 118, preferì valutare prima
le conduzioni del ciclista, temendo comunque il peggio. Era una donna pratica e
affettuosa.
Ciò
che avvenne poi è riassumibile con una frase: amorevoli cure femminili.
Lui
guardò la bici con astio, Marzia come un angelo.
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