Sono stato anche pescatore. Per pochi anni, diciamo dal 1968 al 1971. Una passione forte, tanti sogni, pochi pesci. I pescatori d'acqua dolce sognano soprattutto la cattura del luccio. Io di lucci non ne ho mai pescati. Mio cugino sì, Lorenzo Tamborini detto Renzo, mio idolo di quegli anni. I narratori hanno il privilegio di rifarsi, almeno sulla carta. Questa è la mia vendetta.
Il luccio
I
due cinquantini rombavano alle prime luci dell’alba. Marco era in sella al suo
adorato Fantic Caballero rosso fuoco, Sandro poggiava il culo sopra un
proletario Demm grigioverde, manubrio basso alla Giacomo Agostini. Finiva
maggio; in discesa sul Sasso di Gavirate, alle sei del mattino, non faceva
caldo. Arrivarono all’imbarcadero di Laveno, ci volle del tempo prima che le
dita fossero pronte ai nodi e alle manovre che precedono la pesca. La prima
delusione: “Fischia! Vuoi vedere che ho dimenticato il mulinello?” disse Marco.
Rovistò, incredulo e incazzato.
“Trovato?”
“Trovato
un bel niente.”
“Ti
è andata bene. Ho qui un Mitchel in più. Filo grosso ma meglio grosso che
piccolo.”
Marco
fece un pensiero sconcio: sempre lì i maschi andavano a parare.
“Fammi
vedere…Sei un amico.”
“Dammi
una sigaretta.”
Così
i due affumicarono i loro giovani polmoni con le Turmac piatte, un pacchetto di
cartone rigido che Marco aveva rubato a suo padre.
Il
sole saliva rapido, il lago prendeva colore d’argento, il lungolago accoglieva
i pescatori della domenica. Attraccò il primo battello, Marco decise di
lanciare il grosso galleggiante verso un tronco piantato sul fondo, che
delimitava la zona destinata al natante. Avevano in mente di cacciare scardole
panciute, minimo un paio d’etti, al più qualche cavedano, ma l’abbondanza del
pescato era inversamente proporzionale alla bellezza del paesaggio, verniciato
di fresco da quella mattina di primavera. E il tempo scappava.
“Cagnotti
sprecati” disse Sandro. “Potevamo starcene a dormire.”
“Abbi
fede…” poi Marco guardò l’orologio, impaziente. “Però sono già le dieci…Troppa
gente in giro.”
“Sei
tu che hai voluto venire di domenica.”
“Ci
conviene puntare sulle alborelle.”
“Mi
sa di sì.”
L’acqua
scura del Verbano mandava riflessi metallici: erano le alborelle in frega, che
regalavano la gioia minima di chi si sa accontentare. Infatti più di un
pescatore aveva scelto la lanzettiera, lanciava nemmeno troppo lontano il
galleggiante sferico biancorosso, recuperava dopo minuti di pazienza e sulle
lanzette restavano infilzate per la gola due, tre, quattro, persino dieci
alborelle che danzavano l’ultimo ballo, prima di morire dentro un sacchetto di
cellophane.
I
due cambiarono lenza, trapassarono i corpi dei cagnotti sulle lanzette,
lanciarono e attesero. Un’ora dopo non si erano pentiti della scelta.
“Sarà
contento mio padre” disse Marco. “Di certo preferisce l’alborella alla
scardola.”
“Il
mio odia il pesce” disse Sandro.
“Dalle
a me.”
“E
tu mi dai un’altra sigaretta.”
Ricaricarono
il pungiglione assassino con le larve di mosche carnarie, lanciarono verso la
riva opposta, attesero.
Suonò
mezzogiorno. Marco stava pensando di mangiarsi il panino con la bologna,
appoggiò la canna alla ringhiera, si voltò verso il Caballero e la canna finì a
terra, si rimise in piedi e partì come volesse farsi un tuffo nel lago. Marco
l’afferrò all’ultimo, prima di perderla. “E che cavolo!” esclamò. “Che
succede?”
“Minchia…Cosa
ha abboccato?”
La
canna si era piegata, minacciava di spezzarsi, soprattutto sul cimino. In
direzione del galleggiante il lago s’increspava, ribolliva, le alborelle
scappavano, i pescatori e chi passeggiava per diletto o noia si girarono verso
quella scena inattesa. Dubbi non ce n’erano. Non si trattava di una lanzetta
che si era incastrata nelle alghe o sotto qualche masso; lì a lottare fra la
vita e la morte c’era carne viva, un grosso animale, probabilmente un luccio.
“L’è
‘n lüsc…l’è ‘n lüsc” e chi lo diceva, gente del luogo, non aveva dubbi. “L’è
‘na bela bestia!”
“Adesso
si spacca tutto” disse Marco all’amico.
“Che
culo, che culo…” disse Sandro. “Dai, dai…”
Marco
pensò che sul mulinello di Sandro era avvolto un filo resistente, altrimenti
quel pesce gigante avrebbe già vinto la sua battaglia di mezzodì.
Intorno
ai due la folla aumentava: consigli, incitazioni, silenzi carichi di
meraviglia, ipotesi di lunghezze e di pesi.
Il
cimino si spezzò. Marco, eccitato, pieno di adrenalina sino ai capelli, afferrò
il tratto finale della canna, prima che finisse di sotto. La passò all’amico,
gli disse sudato: “Tienila forte, tieni il filo, io vado giù.” Prese il
guadino, raggiunse di corsa la scaletta che portava sulla spiaggia di ghiaia e
di grosse pietre. Il pesce lottava a cinque metri dalla riva. Il guadino era
insufficiente. Marco seguì il filo tesissimo che calava dalla ringhiera, entrò
in acqua, si avvicinò alla preda mentre i tifosi in tribuna per lo più diceva:
“Chel fiö l’è màtt!”
Marco
si tuffò, vide gli occhi e l’enorme bocca, era certamente un luccio; la
Prealpina avrebbe scritto che a Laveno era stato catturato un luccio di oltre
un metro di lunghezza, dieci chili di peso, ed era stato possibile quel
successo perché l’animale aveva sbranato cinque alborelle di fila, ingurgitando
anche le lanzette, che si erano aggrappate ai suoi organi interni, generando
un’emorragia fatale. Ma il luccio era viscido, scivolava, si dimenava, Marco
cercava di abbracciarlo e la bestia lo schiaffeggiava con la coda. Il ragazzo
era inzuppato, esaltato, preoccupato, gaudioso. Infine si svegliò.
***
Ai
piedi del letto era pronta l’attrezzatura. Marco, grande appassionato di pesca
per via di un parente che abitava a Cassano d’Adda e aveva pescato un luccio da
paura sul fiume lombardo, quella mattina sarebbe montato sulla sella della sua
bici, marca Gloria, dirigendosi a Galliate Lombardo, sul lago di Varese. In
discesa avrebbe sognato prede inverosimili. Si sarebbe intrattenuto, solo, fra
cannette, pozze, fango e voli d’uccello, per tutta la mattina. Avrebbe fumato
tre o quattro Nazionali senza filtro. Le cronache avrebbero poi raccontato che
il giovane, depositati nel cestino quattro gobbini e tre piccole scardole,
avrebbe fatto ritorno, maledicendo, nella fatica del muro di Cartabbia, i suoi
sogni e quella passione senza speranza. Eppure, nella profonda delusione che ripaga
le pretese di un’alta aspirazione, avrebbe intuito il nascere di una nuova
illusione, presagito una battaglia e, finalmente, una clamorosa vittoria.
(per gentile concessione della rivista Menta e Rosmarino, che ha pubblicato il racconto nel numero di dicembre 2024)
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