lunedì 16 dicembre 2024

Il luccio


 

Sono stato anche pescatore. Per pochi anni, diciamo dal 1968 al 1971. Una passione forte, tanti sogni, pochi pesci. I pescatori d'acqua dolce sognano soprattutto la cattura del luccio. Io di lucci non ne ho mai pescati. Mio cugino sì, Lorenzo Tamborini detto Renzo, mio idolo di quegli anni. I narratori hanno il privilegio di rifarsi, almeno sulla carta. Questa è la mia vendetta.


Il luccio

 

I due cinquantini rombavano alle prime luci dell’alba. Marco era in sella al suo adorato Fantic Caballero rosso fuoco, Sandro poggiava il culo sopra un proletario Demm grigioverde, manubrio basso alla Giacomo Agostini. Finiva maggio; in discesa sul Sasso di Gavirate, alle sei del mattino, non faceva caldo. Arrivarono all’imbarcadero di Laveno, ci volle del tempo prima che le dita fossero pronte ai nodi e alle manovre che precedono la pesca. La prima delusione: “Fischia! Vuoi vedere che ho dimenticato il mulinello?” disse Marco. Rovistò, incredulo e incazzato.

“Trovato?”

“Trovato un bel niente.”

“Ti è andata bene. Ho qui un Mitchel in più. Filo grosso ma meglio grosso che piccolo.”

Marco fece un pensiero sconcio: sempre lì i maschi andavano a parare.

“Fammi vedere…Sei un amico.”

“Dammi una sigaretta.”

Così i due affumicarono i loro giovani polmoni con le Turmac piatte, un pacchetto di cartone rigido che Marco aveva rubato a suo padre.

Il sole saliva rapido, il lago prendeva colore d’argento, il lungolago accoglieva i pescatori della domenica. Attraccò il primo battello, Marco decise di lanciare il grosso galleggiante verso un tronco piantato sul fondo, che delimitava la zona destinata al natante. Avevano in mente di cacciare scardole panciute, minimo un paio d’etti, al più qualche cavedano, ma l’abbondanza del pescato era inversamente proporzionale alla bellezza del paesaggio, verniciato di fresco da quella mattina di primavera. E il tempo scappava.

“Cagnotti sprecati” disse Sandro. “Potevamo starcene a dormire.”

“Abbi fede…” poi Marco guardò l’orologio, impaziente. “Però sono già le dieci…Troppa gente in giro.”

“Sei tu che hai voluto venire di domenica.”

“Ci conviene puntare sulle alborelle.”

“Mi sa di sì.”

L’acqua scura del Verbano mandava riflessi metallici: erano le alborelle in frega, che regalavano la gioia minima di chi si sa accontentare. Infatti più di un pescatore aveva scelto la lanzettiera, lanciava nemmeno troppo lontano il galleggiante sferico biancorosso, recuperava dopo minuti di pazienza e sulle lanzette restavano infilzate per la gola due, tre, quattro, persino dieci alborelle che danzavano l’ultimo ballo, prima di morire dentro un sacchetto di cellophane.

I due cambiarono lenza, trapassarono i corpi dei cagnotti sulle lanzette, lanciarono e attesero. Un’ora dopo non si erano pentiti della scelta.

“Sarà contento mio padre” disse Marco. “Di certo preferisce l’alborella alla scardola.”

“Il mio odia il pesce” disse Sandro.

“Dalle a me.”

“E tu mi dai un’altra sigaretta.”

Ricaricarono il pungiglione assassino con le larve di mosche carnarie, lanciarono verso la riva opposta, attesero.

Suonò mezzogiorno. Marco stava pensando di mangiarsi il panino con la bologna, appoggiò la canna alla ringhiera, si voltò verso il Caballero e la canna finì a terra, si rimise in piedi e partì come volesse farsi un tuffo nel lago. Marco l’afferrò all’ultimo, prima di perderla. “E che cavolo!” esclamò. “Che succede?”

“Minchia…Cosa ha abboccato?”

La canna si era piegata, minacciava di spezzarsi, soprattutto sul cimino. In direzione del galleggiante il lago s’increspava, ribolliva, le alborelle scappavano, i pescatori e chi passeggiava per diletto o noia si girarono verso quella scena inattesa. Dubbi non ce n’erano. Non si trattava di una lanzetta che si era incastrata nelle alghe o sotto qualche masso; lì a lottare fra la vita e la morte c’era carne viva, un grosso animale, probabilmente un luccio.

L’è ‘n lüsc…l’è ‘n lüsc” e chi lo diceva, gente del luogo, non aveva dubbi. “L’è ‘na bela bestia!”

“Adesso si spacca tutto” disse Marco all’amico.

“Che culo, che culo…” disse Sandro. “Dai, dai…”

Marco pensò che sul mulinello di Sandro era avvolto un filo resistente, altrimenti quel pesce gigante avrebbe già vinto la sua battaglia di mezzodì.

Intorno ai due la folla aumentava: consigli, incitazioni, silenzi carichi di meraviglia, ipotesi di lunghezze e di pesi.

Il cimino si spezzò. Marco, eccitato, pieno di adrenalina sino ai capelli, afferrò il tratto finale della canna, prima che finisse di sotto. La passò all’amico, gli disse sudato: “Tienila forte, tieni il filo, io vado giù.” Prese il guadino, raggiunse di corsa la scaletta che portava sulla spiaggia di ghiaia e di grosse pietre. Il pesce lottava a cinque metri dalla riva. Il guadino era insufficiente. Marco seguì il filo tesissimo che calava dalla ringhiera, entrò in acqua, si avvicinò alla preda mentre i tifosi in tribuna per lo più diceva: “Chel fiö l’è màtt!

Marco si tuffò, vide gli occhi e l’enorme bocca, era certamente un luccio; la Prealpina avrebbe scritto che a Laveno era stato catturato un luccio di oltre un metro di lunghezza, dieci chili di peso, ed era stato possibile quel successo perché l’animale aveva sbranato cinque alborelle di fila, ingurgitando anche le lanzette, che si erano aggrappate ai suoi organi interni, generando un’emorragia fatale. Ma il luccio era viscido, scivolava, si dimenava, Marco cercava di abbracciarlo e la bestia lo schiaffeggiava con la coda. Il ragazzo era inzuppato, esaltato, preoccupato, gaudioso. Infine si svegliò.

 

*** 

 

Ai piedi del letto era pronta l’attrezzatura. Marco, grande appassionato di pesca per via di un parente che abitava a Cassano d’Adda e aveva pescato un luccio da paura sul fiume lombardo, quella mattina sarebbe montato sulla sella della sua bici, marca Gloria, dirigendosi a Galliate Lombardo, sul lago di Varese. In discesa avrebbe sognato prede inverosimili. Si sarebbe intrattenuto, solo, fra cannette, pozze, fango e voli d’uccello, per tutta la mattina. Avrebbe fumato tre o quattro Nazionali senza filtro. Le cronache avrebbero poi raccontato che il giovane, depositati nel cestino quattro gobbini e tre piccole scardole, avrebbe fatto ritorno, maledicendo, nella fatica del muro di Cartabbia, i suoi sogni e quella passione senza speranza. Eppure, nella profonda delusione che ripaga le pretese di un’alta aspirazione, avrebbe intuito il nascere di una nuova illusione, presagito una battaglia e, finalmente, una clamorosa vittoria.    

 (per gentile concessione della rivista Menta e Rosmarino, che ha pubblicato il racconto nel numero di dicembre 2024)


 

Nessun commento:

Posta un commento