Il Covid ha spento la grande pira del falò da Sant'Antoni dul purscèll alla Motta ma i Monelli, coadiuvati dalla Famiglia Bosina, hanno voluto onorare il santo con due piccoli falò-bonsai, in attesa di tempi migliori. Ripropongo un mio raccontino, che si trova nella raccolta 'Valzer par Varés'. So che l'ho già pubblicato, confido nella poca memoria dei lettori o - ancor meglio - nella presenza gradita di nuovi lettori.
Il falò della verità
di carlozanzi
Il borgomastro di una
ricca città del nord s’era vestito pesante, di lana e di flanella, sciarpa e
scarponcini col pelo e una simil colbacco alla russa; barbetta lunga di tre
settimane, mentre si avvicinava alla grande catasta di legna stringeva nella mano
destra una grossa torcia fiammeggiante, nella sinistra un biglietto. Era lì
convenuto per l’accensione del tradizionale falò di Sant’Antonio, un’usanza di
quel borgo che vedeva in cerchio intorno alla collinetta il sindaco o borgomastro
(per dirla alla nordica), il prevosto e altri notabili della città, fra i quali
si distinguevano il capo degli organizzatori della pira (un ometto tutto bianco
di capelli, di sopracciglia e pallido come una luna smorta) e una signora in
età, con un mantello color porpora, a capo della Famiglia (con la F maiuscola)
che si prodigava per tenere vive le tradizioni del luogo. La stretta via che
infilzava la piazzetta era satura di cittadini, vogliosi di presenziare alla
festa.
Era usanza lanciare nel
fuoco biglietti recanti desideri, per lo più amorosi, nella speranza che il
santo arrivasse dove fallivano la buona volontà, il fascino e i quattrini. Anche
il primo cittadino aveva il suo breve scritto ma non chiedeva mogli, amanti o
una botta di vita. Essendo prossime le elezioni di quella regione, domandava
senza giri di parole che vincesse la sua parte, impegnata da tempo a far valere
le ragioni del settentrione. Nella sua mente si figurava il sud come un diavolo
che tirava il nord verso il basso, dentro il fuoco dell’inferno; o ancor meglio
come una sanguisuga, che succhiava sangue ossigenato dal vento delle Alpi,
ingrassava ai danni di un esangue settentrione, costretto a lavorare il doppio
per sovvenzionare pigri fratelli, adusi a lunghe sieste pomeridiane, svuotati
nelle forze da qualche grado in più di calore nell’aria. Mentre intingeva la
torcia fra le cassette di legno lasciò scivolare il biglietto lì accanto, in
attesa che bruciasse tutto, senza lasciare traccia delle sue speranze politiche,
solo qualche brandello di cenere svolazzante nella rigida notte del sedici
gennaio.
Avvenne un fatto
inatteso: la fiamma attaccò subito ma il biglietto, avvolto dal fuoco, scappò
fuori come per timore di scottarsi, si ritrasse intatto, volò, perse quota e
finì proprio davanti allo scarponcino peloso del primo cittadino. ‘La fiamma
avrà propiziato uno sbuffo’ pensò e si inchinò per raccoglierlo.
“Si sente male?” chiese
la signora ammantata di porpora.
“Mai stato così bene”
rispose lui. “Una gran bella festa. E il fuoco prende che è una meraviglia.”
“Sant’Antoni dul purscèll… ghè da fidàss” disse la donna, nel
dialetto del luogo.
Il sindaco rispose: “Già..l’è propri vera…” ma con la mente
era al biglietto. Guardò. La prima facciata che lesse era la sua scrittura,
tale e quale. Era già pronto per rilanciare il foglietto nel fuoco, quando notò
che il retro non era intonso. Trasalì. Lesse.
‘Diavolo d’un
borgomastro, cosa pretendi? Che un eremita egiziano quale sono stato io appoggi
la tua secessione? O forse hai sbagliato Antonio, e pensi a quello da Padova,
nato un millennio dopo di me? Certo, Padova farebbe comodo alle tue mire
nordiste. Ma sappi che lui a Padova è solo morto, i suoi natali sono di
Lisbona. Rispedisco dunque il tutto al mittente. E vota bene!’
Il sindaco traballò.
“Lei non la conta giusta.
Stasera non mi piace. La cera non è buona. Torni a casa” disse premurosa la
capessa della Famiglia.
“Sarà stato il vin brulè”
disse il borgomastro, con il volto trasfigurato dalla gigantesca fiamma, che
crepitava a pochi metri da lui.
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