Nota
di lettura
“Fuggiaschi”, romanzo di Carlo
Zanzi pubblicato da Macchione editore, narra la storia di due famiglie, una
lombarda, della provincia di Varese per la precisione, e l’altra marchigiana,
della provincia di Macerata, accomunate da una sorte che ne tira i fili lungo
un arco temporale che dalla pima guerra mondiale arriva fino agli anni Ottanta,
nello specifico all’attentato a papa Giovanni Paolo Secondo del maggio dell’81.
Questa breve sinossi non deve
però ingannare, perché non ci troviamo di fronte alla solita saga familiare, in
cui la narrazione è pretesto per complesse analisi sociologiche spesso fini a
sé stesse; la storia in questo romanzo resta invece sullo sfondo e a
campeggiare sono i “dettagli”, quelli di cui la storia stessa si compone e di
cui il romanzo intende, ostinatamente, conservare la memoria.
Generalmente, il concetto di
fuga sottende quello di spazio, in particolare quello di uno spazio racchiuso
fra due estremi: ciò da cui si fugge e ciò a cui si tende, l’uno pericolo
incombente e l’altro luogo di riparo. La fuga che è al centro del romanzo e che
muove le vite dei protagonisti, invece, si pone piuttosto come fuga nel tempo,
quello della vita che scorre inesorabile, e che da un lato è storia, abbiamo
detto, dall’altro è più semplicemente biografia. Il tempo del romanzo, infatti,
è un tempo che, visto dall’alto delle generazioni e del loro susseguirsi, si
sviluppa in modo diacronico da due punti quasi perfettamente simmetrici
rispetto alle vicende dei protagonisti, il lombardo Mauro Lodi e il marchigiano
Ennio Orazi: il punto costituito dai rispettivi genitori, Luigi e Giorgio, il
primo del 1890, il secondo di qualche anno più giovane, del 1895, compagni al
fronte della Grande Guerra e complici nella fuga rocambolesca quanto
improbabile, ma alla fine riuscita, con cui il romanzo si apre; e il punto
costituito dai rispettivi figli, Cristiano e Cristina, il primo nato nel 1956,
la seconda il primo giorno di primavera del 1959, simbolicamente uniti nei nomi
oltre che nelle vicende di una storia che, alla fine del libro, li vedrà uniti
anche in matrimonio (oltre che nella comune fede a cui i nomi stessi – omen
nominis - sembrano alludere).
L’elemento di forza del libro,
che ne fonda l’originalità nel contesto di un genere letterario ricco di
insidie, va però, a mio avviso, ricercato nella scelta stilistica effettuata
dall’autore che, in una struttura congegnata nel modo descritto, articola con sapienza
la narrazione intorno a brevi capitoletti, cinquantacinque in tutto, in cui la trama
sembra snodarsi per successivi aggiornamenti, sorta di “trafiletti” di cronaca
che della storia mantengono l’afflato, lo scorrere inesausto e fagocitante, e
della cronaca, quasi in controcanto, il persistere ostinato e diligente del
dato che non deve andare perduto.
Così il libro finisce per
svelarsi al lettore come la parafrasi di una fuga che da fuga nello spazio
diventa prima fuga “nel tempo”, e poi finalmente fuga “dal tempo”, quello che
si chiude e si riapre come un respiro attraverso il flusso delle generazioni e che
il romanzo cerca infatti di esorcizzare con un’attenzione perfino ossessiva ai
dettagli e un ricco apparato di riferimenti simbolici.
L’attenzione ai dettagli, per
niente condizionata dal periodare prevalentemente paratattico, si esprime nella
scelta accurata dei vocaboli, oltre che nelle molte descrizioni minuziose che
costellano la narrazione, e non è altro che il risvolto di quell’attenzione che
l’autore intende riferire in modo preminente alla cronaca e al singolo che ne è
protagonista, rispetto a una Storia (quella con la esse maiuscola) dove le
vicende umanissime degli individui vengono spesso a perdersi in un significato
complessivo che di umano conserva ben poco.
Questa scelta di fondo
compiuta dall’autore è poi rafforzata dal ricorrere nel romanzo di molti riferimenti
simbolici, che lo consegnano così a una dimensione più ampia, garantendogli al
tempo stesso una valenza generale: dalla fascinazione per il volo che non dà
pace a Mauro alla tormentata ricerca da parte di Ennio di una nuova casa, entrambe
riverberi di quello stesso senso di fuga che è per loro destino e genealogia
allo stesso tempo; dai molti, ricorrenti riferimenti toponomastici che fungono
da viatico nei meandri fittissimi di questo originalissimo “spazio/tempo” in
cui si dipana la trama del romanzo, fino alla scelta dei nomi dei due ragazzi
ai quali il finale del libro consegna il compito di proseguirne la storia,
abbozzando solo in controluce, quasi come un auspicio, le coordinate da seguire:
Cristiano e Cristina, che il romanzo saluta sulla soglia della stanza in cui si
abbracciano nella loro prima notte di nozze, con le parole di Alma e Renzo, lei
del 1913, lui, “uomo fedele”, del 1907: “Beati loro”.
E così, come al volgere di un
cerchio che si chiude, l’epilogo si ricongiunge al prologo con cui si apre il
libro: “Alle tre della notte lei, nuda al suo fianco, ebbe un tremito a
conferma che si era addormentata. Le sfiorò il seno caldo, sorrise nel buio,
non sarebbe riuscito a prendere sonno, tornò a ritroso di un anno, di dieci, di
venti e mentre la sua sposa respirava leggera, provò a comprendere la loro
storia”.
Melzo, 24 ottobre 2024
Francesco Scaramozzino
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