giovedì 27 aprile 2017

Per i giorni di pioggia



Un indefinibile senso di pace
di carlozanzi

Un indefinibile senso di pace lo condusse a varcare il cancello di un parco pubblico: una pace calata con la sera, sul finire di una giornata umida di pioggia sottile, confezionata in carta di cielo grigio e asfalto lucido. Un tempo ovattato e fastidioso anche per lui sino a quella serenità senza ragione, nata come dono dopo pensieri ansiosi e consegne impellenti.
Entrò nel giardino pensando come avrebbe dovuto comportarsi per non perdere quello spazio di contemplazione quando la gente, noiosa, non parlava che della pioggia e non faceva che imprecare alle rogne della vita. Capì che avrebbe dovuto sigillare le pareti dei suoi pensieri, fissare il suo esistere dentro uno spazio minimo, sloggiando tutto e tutti; un egoismo amorevole, che gli regalava una inattesa felicità.
Zoommò il suo futuro dentro un’immagine ancor più ristretta, un minimo orizzonte dove focalizzare il suo sguardo. Finì per adagiarsi su un sempreverde e, mettendo a fuoco, trovò un rametto che luccicava di piccole gocce. S’avvicinò. Qualche altro passo. Tolse gli occhiali da miope, si dispiacque d’aver lasciato a casa quelli da presbite. Osservò con un’attenzione per lui sconosciuta, lui abituato a sguardi veloci e giudicanti, rapidi e distratti, presto dimenticati. Non aveva fretta perché aveva annullato ogni impegno, grazie ad una dimenticanza benevola.
Sottili rametti verdi s’allungavano da un ramo marrone, dalle estremità penzolavano gocce di pioggia, acqua minuta, troppo leggera per sciogliersi a terra in pozzanghera. Ogni goccia conteneva un riflesso, parlava d’altro, rimandava al mondo fradicio e silenzioso che apparteneva a quel grande parco cittadino. S’avvicinò ancora sino a sfiorare i rami col naso. E pensò alla sua vita. In bilico come quelle gocce, vive per assenza di vento o di dita che sfiorassero i rami, bisognose di un altro, di una dipendenza, di un amore a cui legarsi per non morire, cedendo alla gravità, alla terra, assorbite dal nulla. Appesa la sua vita come un acrobata, uno scalatore in roccia, no, ancora più instabile, meno prevedibile nel futuro, meno salda. Un esistere nella bellezza come meravigliose erano le gocce, un bello in balia di prepotenze, disattenzioni, parole vuote, sbuffi di rabbia capaci di far tremare un ramo, di scollare una passione che cerca abbracci.
Lo temeva e accadde. La pace durò pochi istanti, si incrinò disturbata da voci lontane, da un fastidioso prurito al collo e da pensieri malandrini che s’infiltrarono nella prima crepa e tornarono ad inquinargli la mente. Cercò di scacciarli ma non vi riuscì, altri si diedero appuntamento dentro di lui: la vita vera tornò coi suoi fastidi.

Per rabbia avrebbe voluto schiaffeggiare quei rami, far pagare alle gocce di pioggia il loro inganno. Si trattenne. Con l’ultima pace ringraziò, si grattò il collo e riprese il cammino, puntando all’uscita.      

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