EMOZIONI IN VIAGGIO
Che cos'è la lettura
se non un viaggio? Che cos'è un viaggio se non emozioni, sensazioni, immagini?
E il cerchio si chiude. Questa foto l'ho scattata un paio d'anni fa in
Portogallo in uno dei miei luoghi del cuore. E così di fronte ad un concorso
sul tema del viaggio mi è sembrato spontaneo creare un racconto su Nazarè. Un
racconto di fantasia con un piccolo fondo di verità, uno spunto fornitomi
dall'amica Valentina Fanti che
ringrazio. Il racconto è stato premiato come finalista sabato scorso a Monza
per il premio Carlo Vittone. Mi permetto di offrirvelo.
plt
NAZARE’
di Pierluigi Tamborini
Una fotografia, tanto per cominciare.
Qui tutto è grande, anche la barca che c’è in primo piano, una di quelle che usavano i pescatori di un tempo. E’ fasciata di rosso e di bianco, tutta nera la chiglia e sta sulla spiaggia, ma non è in riva al mare.
L’hanno piazzata una trentina di metri all’interno, insieme ad altre, di differenti colori, una specie di museo a cielo aperto per attirare chi ci passa davanti.
E’ priva di albero e vela, ma non so dire perché, fin da quando è comparsa ai miei occhi l’ho vista solcare altri mari come fosse la Misericordia, con padron ‘Ntoni alla barra.
E dire che pure il mare è di un colore diverso. Lo sfondo non mostra i faraglioni che una leggenda trasforma in massi scagliati da un ciclope nervoso contro il principe dei naviganti. Il mare di Aci trasmette operosa tranquillità, qui rumoreggia l’oceano, luogo di antiche carte nautiche e di mostri marini, e qualcuno un giorno narrò della sua furia incredibile quando arriva tempesta.
Non è molto tempo che un brasiliano, più matto che sano, è venuto a sfidarlo ed è salito su un’onda da record, la più alta del mondo. Ventiquattro metri di puro terrore.
La barca, come tutti i natanti che si fan rispettare, possiede un nome, lo stesso del luogo dove adesso riposa.
A Nazarè non ci sono mai stato, ma ancor oggi mi viene da dire che è davvero un mio luogo del cuore.
Una foto rivela sempre qualcosa che appartiene al passato, non potrebbe esser viva altrimenti. Anche questa racconta un istante fermato nel tempo, non dice di più, una scogliera col faro, alcuni bagnanti allo sfondo e non so dire in che anno sia stata scattata.
Sono soltanto dettagli, in realtà nel mio cuore Nazarè è presente da un tempo che mi sembra infinito.
Mio padre era uomo impegnato, la sua professione aveva fatto di lui un giramondo. Nei miei ricordi di quand’ero bambino riviveva un signore che quasi non conoscevo, un uomo alto, con la barba curata, sempre vestito in maniera perfetta, accompagnato da una valigetta nera, dalla quale non l’ho mai visto staccarsi.
Nei rari, piccoli giorni, tra un aereo ed un treno, in cui lo vedevo tra le mura di casa, mi nutriva di posti incredibili, di città mirabili, di mari sconosciuti. Non sapevo allora il confine tra la realtà e la fantasia di un uomo sempre in cammino, ma non mi importava, perché dentro di me cresceva la voglia di diventare subito grande per poterli vedere.
I suoi racconti avevano sempre lo stesso finale: “Prima o poi mi ritiro a Nazarè, davanti all’oceano: Farò il pescatore”.
“Come no –rispondeva mia madre- non ti vedo proprio a buttare le reti”.
Un copione scontato, una liturgia che non prevedeva che potessi intervenire esprimendo consenso o soltanto un parere.
Il discorso finiva lì e restavo inappagato con le mie mille domande inespresse.
Una su tutte, dov’è questo posto?
Ma chiedere a mio padre non era concesso, scaduto il mio tempo
era già rivolto ai suoi affari e mia madre se la cavava sempre con uno scontato “Non so, da qualche parte nel mondo”.
“Bella risposta- pensavo- immagino certo che non sia sulla luna”.
Ci fu un momento un paio di anni più tardi, quando ero in seconda elementare, che credetti di avere risolto il mistero. Durante la lezione di catechismo un sacerdote ci raccontò di Nazareth, il paese dell’infanzia e della giovinezza di Nostro Signore. E così mi cullai per un lungo periodo nell’illusione che mio padre volesse seguire le orme degli apostoli diventati pescatori di uomini.
Quando caddi fuori dal sogno? Non lo ricordo, ma rammento benissimo l’odioso volto del secchione di turno che mi comunicava che a Nazareth di Galilea l’oceano non era presente, che intorno c’erano soltanto colline e che mio padre, se voleva fare il pescatore, si sarebbe dovuto accontentare di un lago chiamato Tiberiade.
Una delusione totale. Ci misi anni a raccogliere i frammenti del mio sogno e nel frattempo altre domande avevano scavalcato la geografia di un luogo che continuava a restare mitico, nonostante le ingiurie del tempo.
A vent’anni studiavo per diventare ingegnere, seguendo una rotta che qualcun altro aveva tracciato per me. In realtà con i numeri avevo poco a che fare, avevo altro per la testa, volevo viaggiare. E quando riuscivo a liberarmi dai libri lo facevo con l’incoscienza dei miei giovani anni.
Ho sempre amato viaggiare leggero. Spesso chi parte si porta dietro, come fosse una lumaca, un pezzo di casa. Per me era inconcepibile, volevo anzi annullarmi nel viaggio, rinascere nuovo nei panni di un altro, integrarmi con modi e pensieri diversi dal mio, nel tentativo di essere quello per cui mi sentivo portato, un cittadino del mondo.
E di strada, lasciate che dica, ne ho davvero percorsa parecchia, dai polverosi sentieri che mi hanno portato a Santiago, sulla tomba di Giacomo, fino alle scogliere d’Irlanda, dalla baia di Sidney fino ai tramonti dorati di Istanbul, dall’armonica geometria delle strade di New York alla confusione
organizzata della grande piazza di Marrakech.
Davanti a posti così spalancavo sempre gli occhi per farmeli entrare dentro come una dolce malattia e ogni volta che la voglia di fuggire si era stemperata nella nostalgia del ritorno a casa, riprendevo i miei bagagli leggeri e mi riscoprivo più ricco.
Forse cercavo me stesso, forse ero a caccia di quel Dio che mi aveva deluso vivendo nella Nazarè sbagliata e che pure avevo incontrato due volte, tra i camini delle fate in Cappadocia e davanti alle grandi sequoie di California.
Lo stesso Dio che sento vicino, anche nel luogo in cui adesso mi trovo.
Oggi nel mio quieto ascoltare si fa strada un ricordo che riesco a catalogare soltanto come un dolore che più non fa male.
Il giorno che mio padre approdò alla pensione per noi fu un momento di festa ma lui non sembrava contento. “Ora- gli dissi- potrai realizzare il tuo sogno di gettare le reti”.
Mi rispose dopo un lungo sospiro: “Nazarè, Nazarè. Non ci sono mai stato e forse mai la vedrò. Ma è giusto così, un luogo del cuore meglio sia misterioso e lontano”.
Fu quel giorno che la fotografia della barca entrò in mio possesso.
“Ti svelo un segreto –mi disse- l’ho portata con me in tutti i viaggi che ho fatto.
Questo pianeta non ha più segreti, serviva un posto che non avevo ancora vissuto, una strada di fuga, un porto sicuro nel quale poter riposare contro i mali del mondo.
Perché proprio qui? E’ la domanda che mi aspetto da te, ma non so darti risposte. Un giorno la foto era davanti ai miei occhi e ho sentito una musica dentro, come se il destino mi restituisse un bene perduto con un appuntamento in un posto lontano da qui.
Allora mi sono documentato e l’ho vista quella cittadina, un punto minuscolo sulla carta geografica, un tempo alla fine del mondo a noi noto. Portogallo si chiama, ma è una terra che preferisco definire con il nome di un tempo. Non so perché ,mi sembra suonar molto meglio.
Lusitania, che te ne pare di Lusitania? C’è qualcosa di affascinante in questo nome, la musica dentro di cui ti parlavo.”
Così diceva mio padre ed io restavo ad ascoltarlo, incantato e stranito, come se non lo avessi Incontrato mai prima di allora. Davanti a me c’era un uomo che in realtà non sapevo chi fosse.
Capita a volte che le persone più care rivelino lati del loro carattere che mai ci saremmo aspettati. Come potevo pensare che l’uomo d’affari tutto d’un pezzo nascondesse dentro di sé il cuore di un vero poeta?
Allora non lo sapevo, ma quella foto fu il suo ultimo regalo, la sua eredità. Poco tempo dopo partì per un viaggio dal quale nessuno è mai ritornato, lasciando due arbusti piegati, mia madre e mia sorella Francesca ed un giovane albero che la vita contribuì a rendere forte.
In tutti gli anni che sono seguiti ho continuato a viaggiare, spesso soltanto con la fantasia, perché il lavoro e le nuove responsabilità mal si adattano con i sogni di chi affronta la strada.
Molte volte, prima di lasciare l’ufficio e fare ritorno a casa, mi sono fermato davanti alla foto della barca, immaginando quello che non potevo vedere nè a sinistra né a destra, disegnando con occhi diversi il profilo della spiaggia e della scogliera.
Infine la riponevo in un cassetto portandomi dietro un dilemma continuo:
andarci per dare una voce, un sapore, un odore a quella mitica foto o lasciare che restasse un posto del cuore, più in alto di tutto, esente da delusione e dolore. In un certo senso il destino mi ha dato una mano scegliendo per me, anche se forse non è tutto scritto.
E domani si va a Nazarè.
Qui tutto è grande, anche la barca che c’è in primo piano, una di quelle che usavano i pescatori di un tempo. E’ fasciata di rosso e di bianco, tutta nera la chiglia e sta sulla spiaggia, ma non è in riva al mare.
L’hanno piazzata una trentina di metri all’interno, insieme ad altre, di differenti colori, una specie di museo a cielo aperto per attirare chi ci passa davanti.
E’ priva di albero e vela, ma non so dire perché, fin da quando è comparsa ai miei occhi l’ho vista solcare altri mari come fosse la Misericordia, con padron ‘Ntoni alla barra.
E dire che pure il mare è di un colore diverso. Lo sfondo non mostra i faraglioni che una leggenda trasforma in massi scagliati da un ciclope nervoso contro il principe dei naviganti. Il mare di Aci trasmette operosa tranquillità, qui rumoreggia l’oceano, luogo di antiche carte nautiche e di mostri marini, e qualcuno un giorno narrò della sua furia incredibile quando arriva tempesta.
Non è molto tempo che un brasiliano, più matto che sano, è venuto a sfidarlo ed è salito su un’onda da record, la più alta del mondo. Ventiquattro metri di puro terrore.
La barca, come tutti i natanti che si fan rispettare, possiede un nome, lo stesso del luogo dove adesso riposa.
A Nazarè non ci sono mai stato, ma ancor oggi mi viene da dire che è davvero un mio luogo del cuore.
Una foto rivela sempre qualcosa che appartiene al passato, non potrebbe esser viva altrimenti. Anche questa racconta un istante fermato nel tempo, non dice di più, una scogliera col faro, alcuni bagnanti allo sfondo e non so dire in che anno sia stata scattata.
Sono soltanto dettagli, in realtà nel mio cuore Nazarè è presente da un tempo che mi sembra infinito.
Mio padre era uomo impegnato, la sua professione aveva fatto di lui un giramondo. Nei miei ricordi di quand’ero bambino riviveva un signore che quasi non conoscevo, un uomo alto, con la barba curata, sempre vestito in maniera perfetta, accompagnato da una valigetta nera, dalla quale non l’ho mai visto staccarsi.
Nei rari, piccoli giorni, tra un aereo ed un treno, in cui lo vedevo tra le mura di casa, mi nutriva di posti incredibili, di città mirabili, di mari sconosciuti. Non sapevo allora il confine tra la realtà e la fantasia di un uomo sempre in cammino, ma non mi importava, perché dentro di me cresceva la voglia di diventare subito grande per poterli vedere.
I suoi racconti avevano sempre lo stesso finale: “Prima o poi mi ritiro a Nazarè, davanti all’oceano: Farò il pescatore”.
“Come no –rispondeva mia madre- non ti vedo proprio a buttare le reti”.
Un copione scontato, una liturgia che non prevedeva che potessi intervenire esprimendo consenso o soltanto un parere.
Il discorso finiva lì e restavo inappagato con le mie mille domande inespresse.
Una su tutte, dov’è questo posto?
Ma chiedere a mio padre non era concesso, scaduto il mio tempo
era già rivolto ai suoi affari e mia madre se la cavava sempre con uno scontato “Non so, da qualche parte nel mondo”.
“Bella risposta- pensavo- immagino certo che non sia sulla luna”.
Ci fu un momento un paio di anni più tardi, quando ero in seconda elementare, che credetti di avere risolto il mistero. Durante la lezione di catechismo un sacerdote ci raccontò di Nazareth, il paese dell’infanzia e della giovinezza di Nostro Signore. E così mi cullai per un lungo periodo nell’illusione che mio padre volesse seguire le orme degli apostoli diventati pescatori di uomini.
Quando caddi fuori dal sogno? Non lo ricordo, ma rammento benissimo l’odioso volto del secchione di turno che mi comunicava che a Nazareth di Galilea l’oceano non era presente, che intorno c’erano soltanto colline e che mio padre, se voleva fare il pescatore, si sarebbe dovuto accontentare di un lago chiamato Tiberiade.
Una delusione totale. Ci misi anni a raccogliere i frammenti del mio sogno e nel frattempo altre domande avevano scavalcato la geografia di un luogo che continuava a restare mitico, nonostante le ingiurie del tempo.
A vent’anni studiavo per diventare ingegnere, seguendo una rotta che qualcun altro aveva tracciato per me. In realtà con i numeri avevo poco a che fare, avevo altro per la testa, volevo viaggiare. E quando riuscivo a liberarmi dai libri lo facevo con l’incoscienza dei miei giovani anni.
Ho sempre amato viaggiare leggero. Spesso chi parte si porta dietro, come fosse una lumaca, un pezzo di casa. Per me era inconcepibile, volevo anzi annullarmi nel viaggio, rinascere nuovo nei panni di un altro, integrarmi con modi e pensieri diversi dal mio, nel tentativo di essere quello per cui mi sentivo portato, un cittadino del mondo.
E di strada, lasciate che dica, ne ho davvero percorsa parecchia, dai polverosi sentieri che mi hanno portato a Santiago, sulla tomba di Giacomo, fino alle scogliere d’Irlanda, dalla baia di Sidney fino ai tramonti dorati di Istanbul, dall’armonica geometria delle strade di New York alla confusione
organizzata della grande piazza di Marrakech.
Davanti a posti così spalancavo sempre gli occhi per farmeli entrare dentro come una dolce malattia e ogni volta che la voglia di fuggire si era stemperata nella nostalgia del ritorno a casa, riprendevo i miei bagagli leggeri e mi riscoprivo più ricco.
Forse cercavo me stesso, forse ero a caccia di quel Dio che mi aveva deluso vivendo nella Nazarè sbagliata e che pure avevo incontrato due volte, tra i camini delle fate in Cappadocia e davanti alle grandi sequoie di California.
Lo stesso Dio che sento vicino, anche nel luogo in cui adesso mi trovo.
Oggi nel mio quieto ascoltare si fa strada un ricordo che riesco a catalogare soltanto come un dolore che più non fa male.
Il giorno che mio padre approdò alla pensione per noi fu un momento di festa ma lui non sembrava contento. “Ora- gli dissi- potrai realizzare il tuo sogno di gettare le reti”.
Mi rispose dopo un lungo sospiro: “Nazarè, Nazarè. Non ci sono mai stato e forse mai la vedrò. Ma è giusto così, un luogo del cuore meglio sia misterioso e lontano”.
Fu quel giorno che la fotografia della barca entrò in mio possesso.
“Ti svelo un segreto –mi disse- l’ho portata con me in tutti i viaggi che ho fatto.
Questo pianeta non ha più segreti, serviva un posto che non avevo ancora vissuto, una strada di fuga, un porto sicuro nel quale poter riposare contro i mali del mondo.
Perché proprio qui? E’ la domanda che mi aspetto da te, ma non so darti risposte. Un giorno la foto era davanti ai miei occhi e ho sentito una musica dentro, come se il destino mi restituisse un bene perduto con un appuntamento in un posto lontano da qui.
Allora mi sono documentato e l’ho vista quella cittadina, un punto minuscolo sulla carta geografica, un tempo alla fine del mondo a noi noto. Portogallo si chiama, ma è una terra che preferisco definire con il nome di un tempo. Non so perché ,mi sembra suonar molto meglio.
Lusitania, che te ne pare di Lusitania? C’è qualcosa di affascinante in questo nome, la musica dentro di cui ti parlavo.”
Così diceva mio padre ed io restavo ad ascoltarlo, incantato e stranito, come se non lo avessi Incontrato mai prima di allora. Davanti a me c’era un uomo che in realtà non sapevo chi fosse.
Capita a volte che le persone più care rivelino lati del loro carattere che mai ci saremmo aspettati. Come potevo pensare che l’uomo d’affari tutto d’un pezzo nascondesse dentro di sé il cuore di un vero poeta?
Allora non lo sapevo, ma quella foto fu il suo ultimo regalo, la sua eredità. Poco tempo dopo partì per un viaggio dal quale nessuno è mai ritornato, lasciando due arbusti piegati, mia madre e mia sorella Francesca ed un giovane albero che la vita contribuì a rendere forte.
In tutti gli anni che sono seguiti ho continuato a viaggiare, spesso soltanto con la fantasia, perché il lavoro e le nuove responsabilità mal si adattano con i sogni di chi affronta la strada.
Molte volte, prima di lasciare l’ufficio e fare ritorno a casa, mi sono fermato davanti alla foto della barca, immaginando quello che non potevo vedere nè a sinistra né a destra, disegnando con occhi diversi il profilo della spiaggia e della scogliera.
Infine la riponevo in un cassetto portandomi dietro un dilemma continuo:
andarci per dare una voce, un sapore, un odore a quella mitica foto o lasciare che restasse un posto del cuore, più in alto di tutto, esente da delusione e dolore. In un certo senso il destino mi ha dato una mano scegliendo per me, anche se forse non è tutto scritto.
E domani si va a Nazarè.
Francesca è venuta presto stamani
accompagnata da Giacomo, suo marito.
Mi sono sempre chiesto che cosa mia sorella avesse trovato in quell’uomo, tanto bello quanto vuoto dentro. Un vero cretino, vestito sempre all’ultima moda, capace soltanto di parlare di donne e motori. Mi dispiace soltanto di non avere mai avuto l’occasione giusta per dirgli tutto quello che pensavo di lui, ma credo che, nonostante il suo limitato pensare, ci sia arrivato da solo.
Francesca mi è venuta vicino e mi ha preso la mano. Poi ho sentito la sua sul mio volto, la carezza di un angelo. “Oggi partiamo, lo sai?”-le sue lievi parole.
“Che gli parli a fare? –è intervenuto Giacomo- tanto non ti può sentire, il bell’addormentato nel bosco”.
“Il solito stronzo “–mia sorella lo ha fulminato con lo sguardo e con le parole. Ho sentito lacrime calde sulla mia mano e non so che avrei dato per poter aprire gli occhi, per alzarmi e stringerla a me.
Ma non potevo, però l’ho ascoltata e le sue parole sono state una musica dolce nel mio lungo silenzio.
“Non ti preoccupare –mi ha sussurrato all’orecchio- una volta a Lisbona lui ha il suo maledetto congresso ed io sono libera. Mi prendo una macchina e vado là dove tu sai”.
So benissimo di che cosa mi parla, un viaggio soltanto per noi, una volta che
avessi sciolto quel continuo dilemma.
Era il modo migliore per rendere omaggio alla memoria di nostro padre.
Saremmo andati in maggio a Nazarè, per la festa della Madonna del mare.
Avremmo visto i pescatori e le donne con i vestiti dai mille colori, avremmo dato un volto nuovo, un respiro d’immenso a quella foto smarrita.
“Dai, sbrigati che perdiamo l’aereo, dall’ospedale all’aeroporto ci vuole mezz’ora”.
Ancora la voce del cretino, ma detesto ammettere che , una volta tanto, aveva ragione.
“Torno presto, farò tutto quello che avevamo deciso”. Così ha detto lei prima di alzarsi ed uscire, lasciando nell’aria un profumo che sapeva di cose lontane, promesse e rimpianti.
Che posso fare se non aspettarla e accompagnarla nei sogni restando qui, in quest’asettica stanza?
Ma è come se fossi con lei ogni momento del giorno e la posso vedere mentre raggiunge una chiesa dove una piccola folla è in attesa. Sembra una festa di quelle che abbiamo anche noi , nei nostri paesi del Sud. Dalla chiesa escono le statue dei santi e insieme ascoltiamo un giovane prete che ricorda alla folla che quella è una processione vera, non uno spettacolo
ad uso e consumo di turisti e viandanti. Per ultima ecco la statua della Madonna che una leggenda vuole portata da Nazareth, ed è così che riconcilio i miei luoghi del cuore.
Andrà per le strade quella lunga teoria di canti e preghiere e poi la Madonna sarà a vigilare sul mare perché sia benigno verso i suoi figli devoti.
Tutto questo vedrà e ascolterà mia sorella, ma il momento più bello lo lascerà al giorno dopo.
Un caldo lunedì di maggio sulla spiaggia battuta dal vento che qui è un ospite fisso. La barca è là, non va più per mare, presa com’è dal suo nuovo lavoro. Vicino a lei le sorelle di altri colori, le reti da pesca stese ad asciugare, il ritmo lento di una vita a misura di sogno.
Francesca si ferma a guardare un lontano orizzonte, poi dalla borsa tira fuori la foto di un tempo, confronta i suoi contorni, le differenze di oggi e poi compie il rito per il quale è arrivata.
A sinistra verso una spiaggia che sembra infinita, poi a destra, ad accarezzar la scogliera fino a scoprire le bianche case addormentate sulla collina, come un presepe marino.
La sto aspettando e so che presto farà ritorno accompagnata da un profumo d’oceano dove sarà bello confondersi, portando con sé le immagini assenti per dare un senso al pulsare dei nostri cuori in attesa.
“Ti ho portato Nazarè- mi dirà al suo ritorno- , ti ho portato la foto mancante. Adesso svegliati, ti prego, non fare che io abbia viaggiato per niente”.
Lo dirà con la voce strozzata, a trattenere il dolore, o forse non dirà una parola, ma il senso è lo stesso.
Una fotografia, tanto per ricominciare, per cui aspetterò di averla davanti e poi, forse, la guarderò e riaprirò la mia vita.
Mi sono sempre chiesto che cosa mia sorella avesse trovato in quell’uomo, tanto bello quanto vuoto dentro. Un vero cretino, vestito sempre all’ultima moda, capace soltanto di parlare di donne e motori. Mi dispiace soltanto di non avere mai avuto l’occasione giusta per dirgli tutto quello che pensavo di lui, ma credo che, nonostante il suo limitato pensare, ci sia arrivato da solo.
Francesca mi è venuta vicino e mi ha preso la mano. Poi ho sentito la sua sul mio volto, la carezza di un angelo. “Oggi partiamo, lo sai?”-le sue lievi parole.
“Che gli parli a fare? –è intervenuto Giacomo- tanto non ti può sentire, il bell’addormentato nel bosco”.
“Il solito stronzo “–mia sorella lo ha fulminato con lo sguardo e con le parole. Ho sentito lacrime calde sulla mia mano e non so che avrei dato per poter aprire gli occhi, per alzarmi e stringerla a me.
Ma non potevo, però l’ho ascoltata e le sue parole sono state una musica dolce nel mio lungo silenzio.
“Non ti preoccupare –mi ha sussurrato all’orecchio- una volta a Lisbona lui ha il suo maledetto congresso ed io sono libera. Mi prendo una macchina e vado là dove tu sai”.
So benissimo di che cosa mi parla, un viaggio soltanto per noi, una volta che
avessi sciolto quel continuo dilemma.
Era il modo migliore per rendere omaggio alla memoria di nostro padre.
Saremmo andati in maggio a Nazarè, per la festa della Madonna del mare.
Avremmo visto i pescatori e le donne con i vestiti dai mille colori, avremmo dato un volto nuovo, un respiro d’immenso a quella foto smarrita.
“Dai, sbrigati che perdiamo l’aereo, dall’ospedale all’aeroporto ci vuole mezz’ora”.
Ancora la voce del cretino, ma detesto ammettere che , una volta tanto, aveva ragione.
“Torno presto, farò tutto quello che avevamo deciso”. Così ha detto lei prima di alzarsi ed uscire, lasciando nell’aria un profumo che sapeva di cose lontane, promesse e rimpianti.
Che posso fare se non aspettarla e accompagnarla nei sogni restando qui, in quest’asettica stanza?
Ma è come se fossi con lei ogni momento del giorno e la posso vedere mentre raggiunge una chiesa dove una piccola folla è in attesa. Sembra una festa di quelle che abbiamo anche noi , nei nostri paesi del Sud. Dalla chiesa escono le statue dei santi e insieme ascoltiamo un giovane prete che ricorda alla folla che quella è una processione vera, non uno spettacolo
ad uso e consumo di turisti e viandanti. Per ultima ecco la statua della Madonna che una leggenda vuole portata da Nazareth, ed è così che riconcilio i miei luoghi del cuore.
Andrà per le strade quella lunga teoria di canti e preghiere e poi la Madonna sarà a vigilare sul mare perché sia benigno verso i suoi figli devoti.
Tutto questo vedrà e ascolterà mia sorella, ma il momento più bello lo lascerà al giorno dopo.
Un caldo lunedì di maggio sulla spiaggia battuta dal vento che qui è un ospite fisso. La barca è là, non va più per mare, presa com’è dal suo nuovo lavoro. Vicino a lei le sorelle di altri colori, le reti da pesca stese ad asciugare, il ritmo lento di una vita a misura di sogno.
Francesca si ferma a guardare un lontano orizzonte, poi dalla borsa tira fuori la foto di un tempo, confronta i suoi contorni, le differenze di oggi e poi compie il rito per il quale è arrivata.
A sinistra verso una spiaggia che sembra infinita, poi a destra, ad accarezzar la scogliera fino a scoprire le bianche case addormentate sulla collina, come un presepe marino.
La sto aspettando e so che presto farà ritorno accompagnata da un profumo d’oceano dove sarà bello confondersi, portando con sé le immagini assenti per dare un senso al pulsare dei nostri cuori in attesa.
“Ti ho portato Nazarè- mi dirà al suo ritorno- , ti ho portato la foto mancante. Adesso svegliati, ti prego, non fare che io abbia viaggiato per niente”.
Lo dirà con la voce strozzata, a trattenere il dolore, o forse non dirà una parola, ma il senso è lo stesso.
Una fotografia, tanto per ricominciare, per cui aspetterò di averla davanti e poi, forse, la guarderò e riaprirò la mia vita.
Nessun commento:
Posta un commento