Cresce la febbre del sabato sera (3 giugno), cioè della finale di Coppa, che vede la Juve impegnata a guadagnarsi il triplete. Sono sincero, non guarderò la partita. Qui a Varese hanno persino montato un maxischermo, non mi pare abbiano fatto lo stesso per l'Inter, quando vinse la finale (foto). Non guarderò la partita perché tiferei contro la Juve. Non mi si venga a dire che bisogna tifare una squadra italiana! Il tifo è questione istintiva, in genere si sceglie la squadra del cuore intorno ai 10 anni e non la si lascia più. Non è che uno ragiona: uno sente. Io ho sentito l'Inter e basta. Fosse stato in finale il Milan sarebbe stato anche peggio, ma la Juve non mi sta certo simpatica. Quindi: forza Real.
Dedico ai miei amici juventini questo raccontino, che non parla della Juve ma della nazionale italiana.
Biancorossoverde
di carlozanzi
Entrando
al bar Sport domenica tredici luglio duemilaquattordici, avvolto nel tricolore,
Marco Triacca inciampò sulla stringa slacciata delle sue Nike e finì lungo e disteso sul pavimento sporco. Sentì una fitta
al polso destro. Pensò: ‘Iniziamo bene’ e si rialzò, aggiustandosi la bandiera.
Sorrise,
disse “Niente, niente….forza Italia!” e gli amici che erano con lui (Giuseppe Valmaggia
detto Peppo e Luigi Salice detto il Mister) si vergognarono per quell’ingresso
sbilenco.
Finale
dei mondiali di calcio, stadio Maracanà di Rio, in campo Italia e Brasile.
Questo
il tragitto degli azzurri di Prandelli: qualificati agli ottavi per il rotto
della cuffia, con vittoria sull’Uruguay dopo una partita fiacca, per uno a
zero. E quella rete ancora faceva discutere: tiraccio di Balotelli al
novantesimo, lontanissimo dalla porta di Muslera, ma sulla traiettoria ecco
Immobile che, inciampando sul piede di Alvaro Pereira, aveva perso
l’equilibrio, sicché il bolide di Mario avevo colpito la sua natica sinistra,
spiazzando l’estremo difensore uruguacio. Agli ottavi l’Olanda, lanciatissima:
uno a uno a metà del secondo tempo supplementare, Italia discreta ma nulla più,
un Gigi Buffon che aveva parato l’imparabile, infine un clamoroso autogol di
Arjen Robben che, poco incline a difendere, aveva passato la palla al portiere
Cillessen con poco tatto. Ai quarti il Cile, sorpresa dei Mondiali brasiliani, che
negli ottavi aveva rispedito a Madrid la Spagna, detentrice della Coppa. Cile
velocissimo, grintoso, dieci furie (non consideriamo il portiere Bravo) contro
undici ragazzotti viziati, già paghi di essere fra le otto squadre migliori al
mondo. Eppure il Cile non riusciva a segnare, avvelenato dalla sfiga: due pali
di Sanchez, un’incredibile traversa di Mauricio Pinilla, con pallone rimbalzato
sulla riga (ma i cileni reclamavano, probabilmente a ragione, il gol), interventi
miracolosi di Buffon, compresa una parata di schiena così descrivibile: tuffo
plastico di Gigi su tiro da fuori area di Vidal, con respinta di pugno, caduta
a terra maldestra, colpo al collo e parziale intontimento, palla finita ancora
fuori area, sul piede destro di Diaz, staffilata mentre Buffon si stava
rialzando, mostrando il sedere al cileno, senza vedere il pallone che rimbalzava
con tonfo potente sul tratto lombare, palla in calcio d’angolo, abbraccio degli
azzurri al salvatore della Patria. Quindi l’impresa di Cassano, subentrato ad
un iroso, macchinoso e teatrale Balotelli. Il ragazzo del sud, riscoprendo per
pochi attimi il suo estro, si era messo a zigzagare fra i cileni, evitando per
millimetri pedate, spinte e ogni artificio lecito e illecito per fermarlo,
superando infine Bravo ed entrando lui e la palla nella porta dei sudamericani.
Uno a zero. Italia in semifinale contro la Germania. E lì aveva fatto la
partita l’arbitro, il tanto decantato Howard Webb, definito il migliore al
mondo. Causa malafede o cattiva digestione, il direttore di gara inglese s’era
messo di traverso alla vittoria dei tedeschi, annullando per fuorigioco un
regolarissimo gol di Ozil, negando un paio di rigori evidenti, uno plateale
(fallo da ultimo uomo di Buffon su Schweinsteiger), arrivando ad espellere in
rapida successione tre giocatori (Mueller, Podolski e il portiere Neuer). Nonostante
si fosse in undici contro otto l’Italia non segnava, e ci era riuscita solo
grazie all’aiuto del pelato Webb: tiro del varesino Parolo, rimpallato sul
polpaccio dell’arbitro (che, forse, aveva allungato volutamente la gamba),
palla sul palo, infine in rete. Germania caput. Italia in finale, contro la
selecao di Felipao Scolari.
Rieccolo
quindi Marco Triacca detto Cacca entrare rovinosamente al bar Sport del
quartiere Ostiense con i due amici, in una snervante giornata estiva, in una
Roma biancorossoverde in attesa dell’ennesimo miracolo italiano di quel mondiale.
Marco
aveva un peso sul cuore perché era portatore non troppo sano di due tabù: non
piangeva ai funerali di parenti anche prossimi e non riusciva a tifare Italia.
La prima colpa era malcelata, la seconda nascosta, addirittura confezionata
dentro il tricolore, perché peccato gravissimo. Inconfessabile.
Sarò
sintetico sulla svolgimento della sfida calcistica: ciò che conta è il finale. Dirò
solo che il match riservò non poche sorprese. Il Brasile era arrivato ad una
meritatissima lotta per la Coppa mondiale inanellando vittorie indiscutibile,
con un gioco da tutti lodato, vivace, geniale, corretto, senza scene per falli
inesistenti, senza proteste nonostante alcune clamorose sviste arbitrali,
paziente e coraggioso. Insomma: il Brasile sapeva di essere la squadra più
forte e poteva permettersi un fair play ammirevole, difficilmente proponibile
nel mondo dello sport professionistico, in primis nel calcio. Ma in finale
tutto cambiò. Forse la tensione, il peso di una nazione che soffiava il suo
entusiasmo sugli undici eroi del Maracanà, forse il mistero che aleggia sulla
vita, fatto sta che i brasiliani dimenticarono le buone cose fatte sino a quel
punto e si presentarono nervosi, demotivati, sfibrati, incapaci di reggere la
vivacità degli italiani, dati per sconfitti e risorti proprio sul più bello. Ma
la vita volle nuovamente per sé ciò che aveva donato con magnanimità agli
azzurri: quattro pali e una traversa per Mario tornato Supermario, quattro
punizioni da manuale di Pirlo, finite tutte a due millimetri non di più dai
legni, un rigore indiscutibile negato alla nazionale di Prandelli, un rigore
(ingiusto) calciato da Neymar e parato da Buffon con un tuffo avvincente, applaudito
dagli stessi telecronisti brasiliani, oltre che da tutti i giocatori della selecao,
compreso l’allenatore Scolari.
Marco
Triacca aveva il cuore provato perché ad ogni azione in attacco dell’Italia
sperava che la palla non entrasse, e ogni volta era un pericolo scampato. In
cuor suo confidava nel gol del Brasile, anche se mimava entusiasmi per gli
azzurri, sventolava il tricolore, malediceva la sfortuna, lodava la bravura di
giocatori ritrovati.
Ma
avvenne l’irreparabile che non fu, come qualcuno potrebbe pensare, il gol del
Brasile, così riassumibile: ultimo minuto di recupero del secondo tempo
supplementare, giocatori stremati, ormai pronti ai rigori, con in testa la
paura di dover essere fra i candidati al tiro della morte. Hulk il ciclope,
inesistente per tutta la partita eppure ancora in campo, si era fatto passare
la palla da un eroico Julio Cesare (aveva parato ogni bendiddio), era partito a
razzo dalla difesa (chi aveva cercato di fermarlo era finito a terra come un
birillo) e aveva lasciato partire una bomba da trenta metri, centrale, così potente
che aveva piegato le mani a Buffon, tanto che il suo guanto destro era volato
via. Un gol memorabile e ingiusto, che aveva fatto esplodere l’intera nazione
brasiliana e regalato la Coppa a Neymar e soci.
L’irreparabile
fu che Marco Triacca, ammutoliti tutti i presenti nel bar, sventolando la
bandiera italiana (quindi in piena contraddizione) urlò: “Forza Brasile!”
Ma
avvenne di peggio: i tifosi da bar non lo aggredirono, passarono dallo stupore
alla condivisione, con frasi del tipo “Giusto, ha meritato il Brasile, che
vadano a zappare!”, “Prandelli a casa” arricchite da tutto il vocabolario delle
italiche imprecazioni, più qualche bestemmia. Parole inadatte dato che l’Italia,
vista la finale, strameritava di vincere il mondiale.
Il
solo a rimanere seduto fu Carletto Totti detto il Giuda, così soprannominato
perché sospettato di non tifare Italia. Con le lacrime agli occhi tirò fuori
dalla tasca un fazzoletto biancorossoverde, si avvolse il viso,
singhiozzò.
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