......Il giorno che tremò la notte era un
lunedì, il sei aprile duemilanove. Don Marco era in auto diretto a Roma ma
nella Capitale non arrivò mai. Per le notti aveva chiesto ospitalità al parroco
di uno di quei paese sgretolati; la canonica era rimasta in piedi, predilezione
divina, o forse segno di speranza. La
mattina del dieci aprile, un venerdì, si era recato a L’Aquila, uno fra i cinquemila
presenti ai funerali delle duecentocinque vittime del terremoto d’Abruzzo.
Lutto nazionale, esequie di Stato, politici d’alto grado e prelati dall’anello
pesante e dal lungo pastorale con la voluta; in più milleseicento parenti delle
vittime e altre tremila persone, in piedi nella spianata, sotto un simpatico
sole di primavera, che scaldava le proteste verso Dio e asciugava le lacrime.
Ma le proteste erano troppe e circostanziate; le lacrime si riformavano subito
e scivolavano lungo il solco già tracciato.
Per giungere alla spianata di cemento,
dove era stato allestito l’altare, don Marco aveva costeggiato alcuni campi
sportivi di tennis e di pallacanestro. Lungo la via si erano incolonnati gli
oltre duecento carri funebri, una fila di mezzo chilometro; quindi alcune
ambulanze, mezzi dei Vigili del Fuoco e le spalle dei presenti, divisi per
settori.
Pensò che avrebbe preferito starsene in
piedi ma il più vicino possibile alle bare. Aveva saputo che quel giovane era
stato estratto dai ruderi della casa, che si chiamava Romano e che ora riposava
disteso nella bara numero 123. Era stato informato anche di Roberta, la giovane
che era nel letto con lui, ricoverata in coma in un ospedale della capitale
abruzzese. Non li aveva abbandonati più. Pensare a loro, stare con loro gli
faceva bene; la loro storia di dolore lo rendeva meno prete e più uomo. Aveva
preferito salutare il giovane per l’ultima volta; per Roberta ci sarebbe stato
tempo.
Quattro lunghissimi tappeti rossi
isolavano il legno dal cemento. Sopra ogni tappeto s’adagiavano i corpi,
nascosti dal feretro, di oltre cinquanta vittime di quel rutto di morte. Molte
le bare bianche; soprattutto su quelle si inginocchiavano genitori increduli,
sfatti dal dolore. Sopra il coperchio di alcune delle bare più piccole stavano
appoggiati giocattoli e altri oggetti, compagni di giochi e di emozioni di chi
era stato schiacciato dalla sua casa, il luogo più rassicurante. Oltre i morti
era stato allestito un palco azzurro, con baldacchino, a riparo della pioggia o
del sole.
La maggior parte dei presenti piangeva o
recava intorno agli occhi il segno della commozione. Questo lo disturbava,
perché a lui non riusciva di piangere. Nemmeno pensando a Romano e Roberta, che
aveva visto e accarezzato. Nessuno sfogo gli usciva dagli occhi. Di fronte a
quell’immane tragedia, gli parve di soffrire troppo poco. La ragione gli aveva
imposto di lasciar perdere Roma e quella promozione, quasi un’offesa se
commisurata al dramma di una terra ferita nel profondo. Ma perché non gli
bruciava il cuore?
Guardò un militare, uno fra i tanti
presenti sotto il cielo d’Abruzzo, chiamato per il servizio d’ordine. Giovane,
stropicciava il cappello d’alpino fra le mani, tratteneva il pianto ma si
capiva che ce l’aveva lì, pronto a tracimare. Era bello nella sua compassione.
Avrebbe voluto rubargli quel segreto elementare, quell’abilità che scalda, che
fa bene.
Alcuni uomini del servizio d’ordine si
avvicinarono ai parenti che stavano in ginocchio ai piedi delle bare. Era solo
per dire loro che presto sarebbe iniziata la funzione religiosa. Ma erano
timorosi al cospetto di quella afflizione. Arrivò anche l’annuncio al microfono.
Partì il suono di un organo, un organetto da campo, non all’altezza di quella
cerimonia. Una musica afona, gracchiante. Seguì il coro, voci piene, forti,
calde. Alcune mamme e papà si staccarono dai loro figli e andarono ad
accomodarsi nei posti loro assegnati; altri parevano di pietra, un corpo solo
con la cassa di legno e con il morto nel buio.
Il canto ebbe
fine e cominciò la Messa. Don Marco seguiva senza concentrazione. Era distratto
da pensieri apparentemente senza alcuna connessione. Poteva riflettere su Dio e
su quel suo amore illogico, disumano e un istante dopo ritornare a quei suoi
occhi secchi, al cuore freddo, poco carnale; cominciava ad essere stanco,
avrebbe voluto sedersi, il sole era caldo e fastidioso, si era dimenticato in
auto gli occhiali scuri, la luce lo abbagliava, vedeva piccole macchie nere
apparire e scomparire sul suo campo visivo. Cercò di concentrarsi, sarebbe
stato un segno di rispetto verso quei corpi martoriati. Si sentiva a disagio,
non giudicava congruo il suo comportamento, date le circostanze. Fissò
l’altare, notò che due uomini politici erano distratti, parlavano fra di loro.
Un altro spense il telefono cellulare, ma prima lesse un messaggio.
Venne l’ora
dell’omelia. Conosceva personalmente il Cardinale che celebrava. Lo stimava.
Anni addietro era passato anche attraverso la prova dell’invidia, del desiderio
di raggiungere il suo grado episcopale. Ma era trascorso il tempo, svanite le
speranze di arrivare così in alto e nell’accontentarsi di un destino più sobrio
aveva imparato ad invidiare di meno.
Ebbe un pensiero
disturbante, che tradotto voleva dire: ‘Vediamo cosa sarai in grado di dire, al
cospetto di tutta questa insensatezza.’ E per un attimo divenne cattivo,
augurandosi che il Cardinale facesse la figura del prete, capace di insegnare
agli altri con frasi imparate alla scuola della Parola di Dio, ma poco
compassionevoli. Si pentì di essere così stronzo. Cercò di strappare via quella
gramigna, dalle lunghe radici avvinghiate alla sua anima debole......
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