.........Scrosciava dal
cielo d’Abruzzo una pioggia senza pietà. Fredda, sputata sulle cose e sugli
uomini da un vento che pareva soffiato da un demonio incazzoso. Don Marco
faticava a vedere la via, teneva i tergicristalli alla velocità massima, la
ventola sul quattro, l’aria calda ma i vetri dell’auto si pulivano a fatica,
doveva usare un panno per farsi strada, per vedere in quelle raffiche d’aprile.
Una primavera bastarda.
Arrivò alla
tendopoli, un distesa di case finte color cielo sereno. Posteggiò nel fango.
Non c’era che fango in quella spianata di anime prostrate. Senza scendere
dall’auto si infilò gli stivali di gomma, a fatica; nonostante mangiasse poco e
male da giorni quel suo ventre obeso non perdeva centimetri di circonferenza.
Si sentiva gonfio. Prese l’ombrello e scese nella pioggia e nel gelo.
Era il minimo
che potesse fare: celebrare la Messa per gli aquilani costretti alla tenda in
attesa della new town, della cittadina prefabbricata che era stata loro
promessa dagli uomini delle istituzioni.
L’acqua del
cielo aveva chiuso gli aquilani nelle case di tela impermeabile. I segni di
vita erano i rumori che filtravano all’esterno: parole, pianti di bimbi,
televisori accesi, musica. Il pianto degli adulti era silenzioso, non usciva
all’esterno, era un dolore compresso, una matassa di rabbia e paura che
opprimeva la bocca dello stomaco. La pioggia mitragliava le tende, annegava
nelle pozzanghere, regalava nutrimento alla natura e nuove ragioni di lamento
per la gente del terremoto. Cominciava a dare fastidio davvero, a inumidire i
vestiti e le coperte, a filtrare all’interno di quei locali provvisori,
rendendo la sopravvivenza uno strazio.
Vide un pallone
uscire veloce da una tenda, seguito dai rimproveri di una madre e dalla corsa
di un ragazzetto di una decina d’anni, con piccoli stivali verde semaforo che
rincorreva la sfera a scacchi. “Basta! Basta col calcio!” urlava la donna. Don
Marco si chiese se era stata lei a calciare fuori il pallone, esasperata,
oppure il bambino, con un tiro più potente del consentito. Osservò la corsa
traballante del ragazzo, che non si curava di scansare le pozze, pareva
entrarci di proposito, con passi che facevano schizzare l’acqua provocando alti
spruzzi. La palla si era fermata contro la tende di fronte. Il ragazzetto la
prese con le mani e anziché tornarsene dentro per la via più breve, immaginò un
rientro più lungo, per sfogarsi, per correre un po’. Passò vicino al sacerdote
e don Marco disse: “Passa!” Il bimbo si fermò, riconobbe il prete che diceva
Messa, superò la sorpresa e gli fece arrivare fra i piedi la sfera. Stop di
piatto, passaggio di ritorno, e nel tempo di quei due movimenti calcistici
rivide le sue partite giovanili, riassaporò il sapore del gol, della doccia
dopo una vittoria sudata, le bevute alla fontanella in fondo al campo, per
soddisfare la violenta sete dell’estate.
Il piccolo
immaginò di scartare chissà quale difensore e tirò contro un palo della luce,
la palla rimbalzò, rotolò e finì a mollo in una delle pozze più profonde della
tendopoli. La madre si affacciò da quell’uscio di plastica: “Marco, dove sei
andato? Non mi fare uscire, altrimenti…” Si chiamava come lui. Lo ammirò nella
sua resa all’obbedienza di figlio: raccolse la palla, la fece volteggiare in
aria, la abbracciò come un portiere dalla presa sicura. Rientrò nella tenda.
La donna vide il
prete. “Don Marco, vuole un caffè?”
Solo un mese
prima avrebbe risposto ‘La ringrazio, come l’avessi preso, vado di corsa’ e
invece disse di sì, volentieri, avrebbe fatto in tempo per la celebrazione.
Entrò. Di fronte
al televisore un uomo, un adolescente e il piccolo Marco, che si stava
togliendo gli stivaletti.
“Fa freddo”
disse don Marco.
“Quando le fa
storte, Dio ci va giù pesante” disse l’uomo, incenerito dallo sguardo della
moglie. Ma lui fissava don Marco, quella frase era per l’uomo di Dio, da lui si
aspettava una replica decente.
“Se conoscessi i
pensieri di Dio” rispose don Marco.
“Se non li
capisce lei” disse il padrone di casa.
Il prete si sentì
a disagio, cambiò discorso. Per fortuna arrivò il caffè, lo bevve, ringraziò,
salutò, guardò Marco che stava incollato al video. Il ragazzetto si girò e gli
sorrise con la felicità incosciente dei piccoli, che non vedono lontano e
s’accontentano del loro eroe televisivo, che dimenticano alla svelta, non
ancora tarlati dal virus della memoria. Uscì, aprì il grande ombrello che aveva
preso con sé e si diresse verso la chiesetta da campo: solo un’altra tenda, con
un tavolo per altare, qualche sedia, un tabernacolo provvisorio e la candela
rossa, accesa per non perdere la speranza che quel pane tondo e piatto fosse
davvero il corpo secco di un Dio........
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