Il
rientro alla Wakernell fu poco accogliente. I nonni ci consideravano imboscati,
nipoti appena arrivati al Tirano e subito partiti per il corso sci, considerato
(giustamente) una pacchia. Io ero arrivato ad ottobre, il mio amico Andrea
Polmonari addirittura a novembre, e subito via. Polmonari: un personaggio.
Ingegnere minerario, lavorerà per molti anni in Sud Africa, poi cambierà vita e
oggi gestisce un noto ristorante ad Albiolo. I nonni si vendicarono: culo e
camicia con i furieri, ci regalarono guardie su guardie, incarichi poco graditi
e qualche risveglio notturno: non con gavettoni gelati, a parte Polmonari,
ribelle, coraggioso e desideroso di non sottomettersi al nonnismo. E così fece,
al prezzo di qualche gavettone assai fastidioso: acqua gelata in piena notte,
coperte e vestiti da strizzare, camerata ghiacciata. Scusate la parentesi, ma
l’amico Andrea se la meritava. Niente licenza per Natale (un triste Natale a
Malles, con Messa in tedesco), e su tutto la prospettiva del campo invernale,
descritto come una marcia forzata, con muli al seguito e tanto freddo da
patire. Dopo essermi meritato il voto di 12/20 nel Corso per mortaisti (non ero
un gran studioso), dopo esercitazioni per il campo ma anche qualche sciata
domenicale sul lago ghiacciato di San Valentino, il 12 febbraio1979 partimmo
per il campo invernale. Ne parlo qui perché in fondo fu anche un’impresa
sportiva. Facevo parte della squadra soccorso, che chiudeva la lunga fila di
uomini, muli e automezzi. Portavo sulla schiena una pesante barella di legno, e
davanti lo zainetto. In genere si partiva alle 5 del mattino, svegliati con
commenti caustici e volgari dal capitano Angelogiulio Di Pietro (nella foto in
cima al Watles è il secondo da sinistra, sembra un soldato giapponese) ma ci
volevano un paio d’ore prima che la cucina da campo servisse le colazioni e ci
si mettesse in marcia. Malles, Burgusio, Slingia, salita al Monte Watles, San
Valentino, Belpiano, passo di Resia, Piavenna, Sluderno, Tanas, Lasa, Oris,
Prato allo Stelvio, Stelvio paese, spalata di dieci chilometri nella neve per
poter permettere ai muli di superare la Forcella di Montechiaro, infine la
discesa verso Malles. Dodici giorni dormendo nei fienili e nelle case
abbandonate, lavandoci nei bar che incontravamo lungo la strada, ore e ore di
attesa per il rancio, freddo costante e insopportabile, chilometri e
chilometri, piedi a pezzi, tanta neve. Certo, un nulla rispetto ai patimenti di
chi è andato in guerra, ovvio, un’inezia, ma sufficiente per capire qualcosa di
quel dramma. Ricordo ancora come acqua benedetta quella prima doccia in
caserma, dopo dodici giorni di astinenza.
43-continua
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