Come
detto, il mio obiettivo di quell’estate 1996 era il Mortirolo da Mazzo, in Valtellina,
il versante più duro, una salita che sapevo davvero tosta anche senza gli
scenari grandiosi di uno Stelvio o di un Gavia. Andava fatto. Mi restava solo
il 12 luglio, perché il 13 saremmo partiti per tornare a Varese. Alle prime
luci dell’alba il meteo non appare fra i migliori, ma lo stesso decido di
partire. Alle 5.18 sono già in bici, alle 6.45 sono in cima al Passo dell’Aprica.
La pedalata è buona, mi sento in forma. Giù in discesa verso la Valtellina, poi
il piano per arrivare a Mazzo Valtellina. Ci sono alle 7.50. Nel frattempo il meteo si è
sistemato e fa caldo. Mi attendono 1300 metri di dislivello, sino ai 1896 metri
del Mortirolo. Prima parte nel bosco, poi all’aperto (vedi foto). Attacco
prudente ma capisco subito che la gamba non gira. Qualcosa non va. Ho tirato
troppo sull’Aprica o in pianura? In effetti non ho nelle gambe molti chilometri
d’allenamento. Fatto sta che a metà salita sono cotto, la più clamorosa crisi
della mia lunga carriera ciclistica. Sono costretto a mettere il piede a terra.
Cammino per un po’, risalgo, qualche centinaio di metri, la pendenza mi appare
inaccessibile, le gambe proprio non ci sono. A malincuore devo camminare per
buona parte del resto della salita. Arrivo al passo alle 9.40, quasi due ore di
salita! Alle 11 sono a Ponte di Legno. Naturalmente non ho il coraggio di
scattare foto al passo: non le merito. Ma non è finita: devo raggiungere la
famiglia, in passeggiata alla Malga Forgnuncolo, quindi salgo in mountain-bike
sino alle case di Viso, un’altra ora di salita: nel frattempo però mi sono
rifocillato. Poi a piedi. Alle 13.30 sono alla malga, molto affaticato. Da
allora non sono più salito al Mortirolo, e sono passati vent’anni. Non è detto
che questo possa diventare un mio obiettivo per il futuro.
53-continua
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