E
venne il giorno della mia prima maratona: 7 marzo 1999. Era una giornata serena
ma con vento freddo. Partii portando con me mio padre Mario, volevo mi seguisse
in bici, sapevo che un supporto sarebbe stato prezioso (ad esempio per lasciare
i vestiti, in caso di partenza troppo coperti…). Trovai alla partenza anche il
mio amico Max Lodi, autore di un libro sulla maratona che mi era stato utile.
Il percorso era pianeggiante, partii ben coperto, facendo clic sul mio Nike, un
orologio preso apposta per la maratona, cioè con 42 memorie, per poter fissare
i passaggi ad ogni singolo chilometro. Come i maratoneti sanno, è essenziale
verificare il crono ad ogni chilometro, perché in principio l’adrenalina è
vivace ed è facilissimo andare più veloci della tabella, senza accorgersene. In
effetti mi accorgevo che, senza per nulla tirare, superare il tempo
prestabilito, e fui costretto a farmi violenza per non andare più veloce,
seguendo chi mi superava. La prima metà della gara è un vero godimento, il
piacere puro della corsa, senza alcuna fatica, godendosi il panorama, i
concorrenti, immaginando ciò che arriverà. Intanto la presenza di mio padre fu
utile, perché cominciai ad alleggerirmi nel vestiario. Sono contento che
qualcuno riuscì ad immortalarmi al passaggio (mi pare di Grazzano Visconti) con
lui dietro in bici. Man mano che scorrono i chilometri, ci si rende conto che
mantenere il tempo in tabella diventa un problema. Ma ciò inizia dal fatidico
trentesimo chilometro, quando mancano ancora 12 km all’arrivo e comincia ad
imporsi la fatica. E’ una lenta e costante ‘intossicazione’, i muscoli
diventano sempre più contratti e rigidi, i piedi si fanno dolenti, comincia
qualche dolore al fianco. Gli ultimi chilometri, sino al 41°, sono una tortura,
e lì è necessaria la forza di volontà, sempre nella speranza che non arrivi un
dolore forte che ti obblighi alla resa. Mi andò bene. Poi si arriva all’ultimo
chilometro, e allora lì è l’apoteosi, si corre guidati dall’entusiasmo, il
responso cronometrico ci soddisfa, la meta è sempre più vicina, si cerca
qualche (un po’ patetico) sorpasso, infine il clic finale sull’orologio. Nel mio
caso il crono si fermò sulle 3 ore, 46’ e 46”, abbondantemente sotto le 4 ore
per coprire i 42 km e 195 metri della maratona. Le gambe mi fecero male per una
settimana ma già tre giorni dopo correvo 15’, e il 13 marzo 40’.
59-continua
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