ph giorgio lotti
Alla
fine del 1995 uscì il mio secondo romanzo, ‘Luzine’. Anche in questo caso mi
permetterò di parlarne diffusamente perché lo considero ancora un buon lavoro,
sebbene piuttosto affrettato, frutto di quella mia bulimia da scrittura che mi
ha condizionato soprattutto negli anni Novanta. Una premessa: ho sempre
cercato, nei primi anni, di dare alla mia ‘perdita di tempo’ di scrittore un
fondamento, una motivazione alta, una missione, un compito. In principio, con ‘La
Comune di Barbara’ e ‘L’ultimo nemico’, la scrittura voleva essere
comunicazione di una fede, quindi era la mia forma di missionarietà, di
testimonianza cristiana. Così mi mettevo il cuore in pace e nascondevo un po’
di vanagloria. Già nella raccolta di racconti prevale il dubbio, la domanda, la
fatica di un Dio che non si fa sentire, ma resta la fede il motore, la ragione
nobile che mi permette di scrivere. Con ‘Luzine’ le cose cambiano. L’esperienza
giornalistica, l’incontro con il mondo della politica mi hanno fatto conoscere
la città, la società, problemi non ecclesiali ma più universali. E’ cresciuta la
mia sensibilità verso le vicende dei popoli, prima incanalata soprattutto nell’attenzione
missionaria verso l’Africa. E così non passò inosservato in me il dramma del
popolo albanese, che raggiunse le coste italiane agli inizi degli anni Novanta.
Mi sembrò fosse anche un mio dovere parlarne, scriverne, e scelsi la forma
narrativa, dopo aver intervistato per il settimanale ‘Luce’ una famiglia di
profughi albanesi arrivati qui a Morosolo. Lì incontrai per la prima volta il
nome femminile Luzìne, che mi colpì. E cominciai a pensare ad un romanzo che
partendo dall’Albania arrivasse in Italia, per concludersi di nuovo oltre il
Mediterraneo. Un romanzo ambizioso, che cercava di indagare le ragioni di
quella fuga. Lessi parecchio, soprattutto i romanzi di Ismail Kadarè, massimo
narratore albanese. E nel 1993 iniziai la scrittura.
39-continua
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