Il
mio amico giornalista Pierfausto Vedani, che pure mi aveva invogliato a
scrivere il libro su Maroni (gli avevo chiesto un parere) lo definì anni dopo
un mio peccato di gioventù. A tanti anni di distanza non sono affatto pentito
di aver scritto quel libro, ma sono dispiaciuto perché avrebbe potuto ottenere
un maggior riscontro di vendite, un maggior successo editoriale se il
neoministro avesse fatto un minimo per promuoverlo. Del resto bisogna capire
anche la situazione: Maroni, primo ministro degli Interni del dopoguerra non
Dc, si trovò con un mare di lavoro. Anche per lui era tutto nuovo, era un impegno
gravoso e rischioso. Non poteva certo avere il tempo di promuovere un libro su
di lui. Inoltre non è tipo che ama farsi pubblicità, e poi vi è da dire che già
si stava creando un certo attrito fra lui e Umberto Bossi, che cominciava a vederlo come un rivale, capace di rubargli
la scena. E il Bossi del 1994 era una ‘belva’, andava a mille e la sua Lega era
determinante per gli equilibri politici. Nemmeno la Lega di Varese fece nulla
per promuovere quel libro. Anche perché non tutti i leghisti varesini stavano
con Maroni, giudicato da qualcuno un figlio di papà, il laureato che, ottenendo
una eccessiva fiducia da parte del capo, stava bruciando le tappe e
raccogliendo più di quanto avesse seminato. In particolare era inviso a Beppe Leoni,
militante della prima ora, braccio destro di Bossi, molto amato dai duri e puri
varesini. Tutto ciò fece sì che il libro passasse quasi inosservato. In verità
uscì un bel pezzo su Sette del Corriere della Sera (venne ad intervistarmi
Antonio D’Orrico), apparvero altre recensioni ma nemmeno una presentazione, una
apparizione in qualche studio televisivo. Bastava che Maroni (che pure andava
regolarmente a Porta a Porta, al Maurizio Costanzo Show…) portasse con sé una
copia del libro, ma non lo fece mai. Né io insistetti. Ma avevo visto giusto. Maroni
era (ed è ancora oggi) un personaggio politico di primo piano, il varesino che
più di tutti è stato ministro (due volte degli Interni e uno del Lavoro) e ora
governatore della Lombardia. Qualcuno lo definisce l’Andreotti leghista, sempre
a galla nonostante le bufere che hanno (anche al presente) strapazzato il suo
partito. A me (da non leghista) interessava descrivere un personaggio e un
clima politico in evoluzione, l’Italia del dopo tangentopoli, un partito nato
dalle idee di un istrionico personaggio del mio territorio, che era diventato
determinante, ago della bilancia della politica nazionale. E credo di esserci
riuscito. Sempre l’amico Vedani mi fece capire che se avessi avuto intenzione
di cambiare mestiere, di fare il giornalista di professione, quello sarebbe
stato il momento. Non nascondo che se mi
fossi proposto, che se avessi manifestato simpatie leghiste, conoscendo gli
uomini giusti avrei magari trovato spazio alla Padania, e poi chissà….ma amavo
troppo il mio lavoro di prof, la mia famiglia, le mie figlie. Una scelta di
quel tipo significava un rischio a tempo pieno, una diversa concezione della
vita e del lavoro. E poi –diciamolo- grosse simpatie per la Lega non ne avevo.
Così non se ne fece nulla, e quel libro resta a testimoniare una fase comunque
entusiasmante della mia vita.
33-continua
33-continua
Nessun commento:
Posta un commento